La centralità virale assunta dalla progettata riforma dell’ordinamento giudiziario, identificata tout court con la cosiddetta separazione delle carriere, ha stimolato un vasto dibattito che, andando ben oltre il suo oggetto diretto, ha finito per attingere la condizione complessiva della magistratura e lo status attribuito ai suoi componenti.
Era inevitabile che in questa prospettiva si attribuisse rilievo all’ordinamento disciplinare dei magistrati e alla sua declinazione pratica quale desumibile dagli orientamenti seguiti dai titolari dell’azione disciplinare, particolarmente dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione, e dalla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura.
Anche in questo ambito sono emerse posizioni contrapposte tra chi ritiene che la magistratura sia riuscita ad assicurarsi una rete protettiva che le assicura di fatto, e con poche eccezioni, una sostanziale impunità e chi invece assume che la giustizia disciplinare magistratuale funzioni rigorosamente e comunque ben più rigorosamente di quella riservata ad altri ceti pubblici e privati.
Tali posizioni sono nella quasi totalità tarate per un verso su singoli episodi di rilievo disciplinare e sull’esito che hanno avuto nelle sedi loro proprie e per altro verso su considerazioni di tipo statistico.
Ben minore è invece l’attenzione riservata al corpus normativo di cui quegli esiti sono espressione.
Eppure, come si proverà a dimostrare, l’attuale configurazione dell’Ordinamento disciplinare dei magistrati, quale istituito dal Decreto legislativo n. 109 del 23 febbraio 2006 e successive modifiche (allegato alla fine del post), è un argomento dal quale non si può prescindere ove si vogliano comprendere le ragioni di certe decisioni che appaiono distanti dal senso comune.
Il quadro normativo in sintesi
Il testo normativo (articolo 1, “Doveri del magistrato”) inizia con un dover essere qualificato da molte aggettivazioni: nell’esercizio delle loro funzioni i magistrati devono essere imparziali, corretti, diligenti, laboriosi, riservati, equilibrati e rispettosi della dignità della persona.
Gli articoli immediatamente successivi (2/4) tipizzano gli illeciti disciplinari e li classificano secondo tre differenti tipologie: gli illeciti compiuti nell’esercizio delle funzioni, quelli compiuti fuori dall’esercizio delle funzioni e quelli conseguenti a reato.
In questo stesso ambito (articolo 3-bis) è contemplata una causa di esclusione dell’illecito allorché il fatto addebitabile al magistrato sia di scarsa rilevanza.
La sezione che segue (articoli 5/13) descrive il sistema sanzionatorio, elencando le sanzioni applicabili (in ordine di gravità crescente: ammonimento, censura, perdita dell’anzianità, incapacità temporanea di esercitare incarichi direttivi o semidirettivi, sospensione temporanea dalle funzioni, rimozione) e stabilendo corrispondenze tra l’illecito compiuto e la specifica sanzione applicabile.
L’articolo 13 introduce la possibilità, in tutti i casi in cui siano inflitte sanzioni diverse dall’ammonimento e dalla rimozione, di integrarle con il trasferimento del responsabile ad altra sede o ad altro ufficio.
Seguono ulteriormente le norme che disciplinano il procedimento disciplinare (articoli 14/19).
Vi si stabilisce che la titolarità dell’azione spetta congiuntamente al ministro della Giustizia e al Procuratore generale presso la Corte di cassazione (di seguito PG), che il suo esercizio è obbligatorio e che è altrettanto obbligatoria la segnalazione ai titolari dell’azione dei fatti di rilievo disciplinare (articolo 14).
Si prevede che l’azione debba essere promossa entro un anno dalla notizia qualificata del fatto (derivante da sommarie indagini preliminari o denuncia circostanziata o segnalazione del ministro della Giustizia), che entro 30 giorni se ne dia comunicazione all’incolpato (il quale ha diritto di farsi assistere da un magistrato o da un avvocato), che entro i due anni successivi il PG formuli le sue richieste conclusive, che nel biennio successivo alla richiesta la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura (di seguito CSM) si pronunci sulle richieste (articolo 15).
Si attribuisce in via esclusiva al PG il potere istruttorio che può estendersi all’acquisizione di atti coperti dal segreto investigativo, fatta eccezione per il caso in cui il procuratore della Repubblica competente eccepisca che la divulgazione degli atti crei il rischio di un grave pregiudizio alle indagini. Spetta ugualmente al PG la facoltà di archiviare il procedimento se il fatto abbia scarsa rilevanza o sia stato segnalato in una denuncia non circostanziata o sia privo di rilievo disciplinare oppure risulti, sulla base delle indagini compiute, inesistente o non commesso dall’interessato. Il ministro della Giustizia, cui spetta di avere comunicazione del provvedimento di archiviazione, è legittimato a chiedere la trasmissione degli atti entro 10 giorni e, nei 60 giorni successivi, la fissazione dell’udienza disciplinare, previa formulazione dell’incolpazione (articolo 16).
Se il PG non archivia il procedimento, compie le indagini che ritiene necessarie, presenta le richieste conclusive (dichiarazione di non doversi procedere o fissazione dell’udienza orale) e invia il fascicolo del procedimento alla sezione disciplinare, dandone comunicazione all’incolpato che ha il diritto di accedere agli atti ed estrarne copia (articolo 17).
Se è stata disposta la discussione orale, si tiene un’udienza pubblica (fatta eccezione per il caso che si debba tutelare la credibilità della funzione giudiziaria o diritti di terzi).
La sezione disciplinare dispone di ampi poteri istruttori attivabili anche d’ufficio (articolo 19).
Completata l’istruzione e presentate le richieste delle parti, la sezione disciplinare delibera immediatamente. La decisione è formalizzata in una vera e propria sentenza che può irrogare una sanzione ovvero escludere l’addebito se non è stata raggiunta una prova sufficiente. La decisione deve essere motivata nel termine di 30 giorni dalla deliberazione (articolo 19).
Sono disciplinati i rapporti tra il giudizio disciplinare e i giudizi civili e penali dipendenti dal medesimo fatto (articolo 20).
Si prevede, secondo i casi e la gravità dei fatti oggetto di incolpazione, la facoltà o l’obbligo di sospendere cautelarmente il magistrato incolpato dalle funzioni e dallo stipendio e si regolano le condizioni dalle quali dipende la cessazione della sospensione (articoli 21/23).
Le sentenze e i provvedimenti di sospensione della sezione disciplinare possono essere impugnati (dall’incolpato, dal PG e dal ministro della Giustizia) dinanzi la Corte di cassazione che decide entro sei mesi a sezioni unite civili (articolo 24).
È possibile, inoltre, la richiesta di revisione (articolo 25).
Accanto alla disciplina della giustizia disciplinare fin qui sintetizzata, occorre citare l’ulteriore istituto del trasferimento dei magistrati per incompatibilità ambientale.
Il trasferimento comporta la destinazione ad altra sede o funzione, è di applicazione facoltativa e può essere disposto anche senza il consenso del destinatario se questi si trovi in uno dei casi di incompatibilità previsti dagli articoli 16, 18 e 19 del R. D. 12/1941 (meglio noto come ordinamento giudiziario) oppure se, per qualsiasi causa indipendente da sua colpa, non possa nella sede occupata svolgere le sue funzioni con piena indipendenza e imparzialità.
Considerazioni sul quadro normativo
È significativo che il decreto legislativo 109/2006 si apra con il catalogo dei doveri del magistrato.
Il legislatore avverte la necessità di tracciare un idealtipo, un modello astratto senza il quale la successiva tipizzazione degli illeciti mancherebbe degli indispensabili riferimenti.
Si chiede dunque ai magistrati o, meglio, gli si impone, di essere tali in un certo modo e si specificano una per una le caratteristiche che soddisfano lo standard richiesto.
Ognuna di esse riporta a qualità normalmente apprezzate in qualsiasi ambito privato e professionale ma se si provasse a definirne esattamente la portata specifica si incorrerebbe in più di una difficoltà.
Qualche esempio può rendere l’idea.
La laboriosità è di sicuro una qualità apprezzabile perché è immediatamente espressiva dell’abilità, decisiva per ogni magistrato, di smaltire i suoi carichi di lavoro nel più breve tempo possibile.
Solo così, infatti, ogni singolo componente di una sede giudiziaria non intralcia né appesantisce l’organizzazione complessiva del suo ufficio ed anzi contribuisce per la sua parte alla produzione di risultati soddisfacenti e al rispetto del precetto costituzionale della ragionevole durata delle attività giurisdizionali.
Nondimeno, la laboriosità può essere assicurata in tanti modi, non sempre apprezzabili.
Potrebbe così accadere che all’accelerazione dei ritmi di lavoro e dei loro risultati corrisponda una minore qualità dei provvedimenti derivante a sua volta da una minore attenzione ai dati conoscitivi disponibili e alle loro implicazioni logiche ovvero da un ricorso massivo e acritico ai precedenti giurisdizionali ovvero ancora da un appiattimento altrettanto acritico su argomentazioni altrui senza alcuna autonomia valutativa da parte del decidente.
Se così fosse, la laboriosità imporrebbe un pesante tributo, quello della sciatteria, che inciderebbe negativamente sul requisito della diligenza.
Anche l’imparzialità è un valore primario per ogni magistrato, quale che sia la funzione che gli è assegnata.
Vale per la magistratura requirente come per quella giudicante, senza eccezioni e distinguo.
Su questo presupposto, del resto, si regge il ferreo postulato che assegna agli atti dei magistrati del pubblico ministero una sorta di fede privilegiata, come si è premurata di ricordare la Corte di cassazione che ha appunto attribuito alle consulenze tecniche disposte dal PM valore superiore a quelle prodotte dalla difesa fondando il principio, tra l’altro, sul dovere di imparzialità dell’accusa pubblica.
Questa considerazione, ineccepibile su un piano astratto e ideale, lo è di meno su un piano concreto se si considera che l’efficienza dei PM, e dunque la loro specifica laboriosità con riflessi anche sulla diligenza, è valutata primariamente sui risultati ottenuti in conseguenza delle richieste cautelari e dell’esercizio dell’azione penale.
Il magistrato del pubblico ministero, operando come qualsiasi altro funzionario pubblico in un sistema a risorse limitate, è propenso quindi a servirsene nelle direzioni che più agevolano quei risultati il che può comportare un ridimensionamento più o meno severo della sua tensione all’imparzialità.
C’è poi da tenere nel debito conto la vaghezza generale delle qualità richieste al magistrato.
Ai primi posti di questa particolare scala si colloca la dote dell’equilibrio.
Ma chi potrebbe dire cos’è e, ammesso che qualcuno lo sappia, chi potrebbe dire qual è il miglior punto in cui collocarlo?
Un magistrato che creda con la massima convinzione in una certa sequenza causale al punto da non essere disposto ad abbandonarla è squilibrato perché non aperto al dubbio o, al contrario, è degno di ammirazione perché persegue con forza e senza tentennamenti la strada che ritiene più corretta?
È pure richiesto, come si è visto, il rispetto della dignità della persona.
Sono persone gli accusati, le vittime, i danneggiati, i testi. Come si coniuga il rispetto per ognuno di essi?
Fino a che punto, ad esempio, può spingersi un magistrato allorché esamina un teste per ottenerne le conoscenze che presume costui abbia? Quanta pressione può esercitare su di lui, di quali mezzi può servirsi per ottenere il risultato sperato, quanto può forzare le resistenze dell’esaminato?
Si potrebbe continuare a lungo per ciascuna delle qualità ma non serve.
È certo comunque che la legge, allorché descrive l’idealtipo del magistrato, si serve di concetti che, considerati sia di per sé che nel reciproco incrocio, rendono legittimi plurimi significati e, conseguentemente, plurimi modelli.
Per ciò stesso pone le premesse per un largo uso di fonti di rango gerarchico inferiore, nel caso di specie coincidenti in larghissima parte con circolari del CSM le quali, se hanno il pregio di colmare le lacune descrittive del testo normativo primario, portano con sé il rischio soggettivistico proprio delle interpretazioni di fattispecie troppo vaghe.
Un’ulteriore conseguenza del testo normativo è l’ampiezza del margine discrezionale affidato al giudice disciplinare.
Il catalogo degli illeciti
Ulteriori complicazioni e perplessità derivano dal catalogo degli illeciti.
A scorrere la lista si ha l’impressione che, per una parte rilevante della casistica delineata dal legislatore, la giustizia disciplinare per i magistrati sia configurata in modo da manifestarsi solo a fronte di comportamenti reiterati e sedimentati, tali cioè da dover essere necessariamente riferiti a caratteristiche personologiche e devianze strutturali più che a fatti specifici, già rilevanti pur nella loro unicità.
Questo accade per il comportamento scorretto nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni, di altri magistrati o collaboratori e, in genere, di chiunque abbia rapporti col magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario (articolo 2, comma 1, lett. d), d. lgs. 109/2006). Comportamenti del genere, difatti, hanno rilievo disciplinare solo se abituali o gravi.
La violazione di legge è punita solo se grave e determinata da ignoranza o negligenza inescusabile (articolo 2, comma 1, lett. f).
Il travisamento dei fatti è punito solo se è determinato da negligenza inescusabile (articolo 2, comma 1, lett. g).
L’adozione di provvedimenti in casi non consentiti dalla legge è rilevante solo se sia il frutto di negligenza grave e inescusabile e solo se abbia leso diritti personali o, in modo rilevante, diritti patrimoniali (articolo 2, comma 1, lett. m).
Il ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni rileva solo se reiterato, grave e ingiustificato e, addirittura, il legislatore introduce una presunzione legale di non gravità allorché il ritardo non ecceda il triplo dei termini previsti dalla legge per il compimento dell’atto (articolo 2, comma 1, lett. q).
Hanno rilievo disciplinare le pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in trattazione o già trattati e non ancora definiti in modo irrevocabile, ma solo se siano finalizzate a ledere diritti altrui e solo se tale finalizzazione sia indebita (articolo 2, comma 1, lett. v).
Hanno pari rilievo i provvedimenti affetti da palese incompatibilità tra dispositivo e motivazione ma solo se siano stati adottati intenzionalmente (cosiddette sentenze suicide) (articolo 2, comma 1, lett. cc).
Si è puniti per l’adozione di provvedimenti restrittivi della libertà personale non consentiti dalla legge ma solo se siano frutto di negligenza grave e inescusabile (articolo 2, comma 1, lett. gg).
In tutti questi casi il legislatore priva di rilievo disciplinare l’episodicità del comportamento o lo rende punibile solo se connotato da gravità o da negligenza del grado più elevato o da intenzionalità o, finanche, solo se abbia leso diritti personali o patrimoniali (talvolta richiedendo aggiuntivamente la finalizzazione indebita della lesione).
Lo stesso legislatore si premura in un caso di introdurre una presunzione di non gravità, ancorandola a periodi temporali.
Introduce infine una clausola generale di salvezza (articolo 3-bis) che esonera da responsabilità disciplinare i magistrati in tutti i casi in cui i fatti loro potenzialmente addebitabili siano di scarsa rilevanza.
Non è azzardato allora intravedere nell’ordinamento disciplinare dei magistrati aspetti protezionistici di non trascurabile ampiezza, soprattutto se confrontati con la disciplina che regola la stragrande maggioranza degli altri dipendenti pubblici.
Effetti dell’inclinazione protezionistica dell’Ordinamento disciplinare
Il risultato di questo protezionismo di fondo è l’opacizzazione e insieme l’annacquamento dei parametri qualitativi elencati dall’articolo 1 del decreto 109.
Come si è visto, i magistrati devono sì essere corretti ma sono puniti solo se hanno fatto un’abitudine della scorrettezza.
Devono essere diligenti e laboriosi ma molto è loro perdonato quando sono negligenti o neghittosi.
Devono essere riservati ma possono esternare fino al punto di ledere diritti altrui purché, beninteso, la finalizzazione lesiva non sia indebita.
Devono rispettare la dignità della persona ma al tempo stesso gli è consentito di privare indebitamente gli individui della libertà personale purché, si capisce, lo spiacevole episodio non derivi da negligenza grave e inescusabile.
E così via.
Si crea in tal modo un conflitto di sistema tra i doveri imposti al magistrato e la casistica esplicita che dettaglia l’area del disciplinarmente rilevante.
La stessa direttrice generale si avverte quando si esamina la parte procedurale del decreto legislativo 109/2006.
È particolarmente emblematica al riguardo l’attribuzione al PG del potere di disporre solitariamente l’archiviazione.
Questo esito, si legge nell’articolo 16, è appropriato tutte le volte che il fatto abbia scarsa rilevanza o sia stato segnalato in una denuncia non circostanziata o sia privo di rilievo disciplinare.
Il PG è interprete e arbitro assoluto di ognuno di parametri, che certo non brillano per capacità descrittiva, e può ritenerli esistenti anche senza disporre alcun accertamento.
Si attribuisce in tal modo ad un organo di parte, non partecipe della giurisdizione propriamente intesa, il duplice potere di qualificare fatti e situazioni, di trarne un esito che impedisce la verifica nella sede giurisdizionale propria e, per di più, precludendo a chiunque, fatta eccezione per il ministro della Giustizia, di conoscere il contenuto del decreto di archiviazione ad eccezione del ministro della Giustizia per le sue competenze istituzionali.
Certo, il ministro della Giustizia ha il diritto di essere informato di ogni archiviazione e, volendo, può chiedere e ottenere la trasmissione degli atti e formulare egli stesso un’incolpazione ai fini della fissazione dell’udienza o anche esercitare autonomamente l’azione disciplinare. Ma si tratta di contrappesi non particolarmente significativi non solo in via di fatto ma anche alla luce del monopolio detenuto dal PG riguardo agli accertamenti istruttori.
Un ulteriore aspetto di rilievo è dato dalla facoltà concessa alla sezione disciplinare (articolo 18, comma 2) di disporre che l’udienza disciplinare, ordinariamente pubblica, si svolga a porte chiuse “se ricorrono esigenze di tutela della credibilità della funzione giudiziaria, con riferimento ai fatti contestati ed all’ufficio che l’incolpato occupa, ovvero esigenze di tutela del diritto dei terzi”.
Se è condivisibile l’esigenza di riservatezza allorché la pubblicità potrebbe danneggiare i diritti di terzi estranei e incolpevoli, si fa invece fatica a comprendere la coerenza dell’altra ipotesi di deroga al regime ordinario.
Parrebbe infatti che la credibilità della funzione giudiziaria sia tutelata meglio consentendo ai cittadini (nel cui nome – non si dovrebbe dimenticarlo – è amministrata la giustizia) di comprendere direttamente e personalmente ciò che l’ha messa a rischio o compromessa e come le istituzioni deputate intendono reagire a tale ferita piuttosto che tenerli all’oscuro.
Né si comprende perché mai bisognerebbe avere riguardo al posto occupato dall’incolpato e alla natura dei fatti contestati, quasi che questi due elementi possano legittimare criteri selettivi e differenti binari valutativi.
Questa specifica regolamentazione sembra il frutto sbagliato di una concezione paternalistica altrettanto sbagliata.
Le conclusioni
Qualunque forma di giustizia, compresa quella disciplinare, deve tenersi lontana dai due estremi, ugualmente pericolosi, dell’eccessivo rigore e dell’eccessiva indulgenza: il primo dimentica le fragilità umane, la seconda ne banalizza le conseguenze negative.
Questo scritto non intende assecondare né posizioni di critica indifferenziata e castale alla magistratura né osanna alle rappresentazioni di una sorta di ceto sacerdotale detentore esclusivo dell’etica pubblico.
I magistrati sono donne e uomini che, in nome dell’intero corpo sociale e di ognuno degli individui che ne fanno parte, dicono cos’è la giustizia e distribuiscono torti e ragioni.
Questa loro umanità è alla radice di errori ma anche di condotte decisamente riprovevoli e lesive di singoli diritti e della funzione giurisdizionale nella sua interezza.
Si vorrebbe che le norme, le prassi e gli indirizzi propri della giustizia disciplinare siano concepiti in modo da distinguere l’essere umano che sbaglia per affanno o inesperienza da quello che si fa largo calpestando gli altri, che si avvale del suo status per ottenere privilegi che non gli spettano, che nella sua funzione si schiera non a favore della giustizia ma di interessi particolari, che crea o partecipa a cordate di potere.
La speranza è che si sappia costruire un modello di responsabilità che non incrudelisca e non banalizzi.
