Detenuto a “Rebibbia”: negato il permesso per il matrimonio (Riccardo Radi)

Apprendiamo dall’agenzia Ansa che il magistrato di Sorveglianza di Roma ha negato il permesso ad un detenuto 51enne romeno che doveva sposarsi oggi a Bovolone (Verona), e che invece si è visto rifiutare il permesso a lasciare il carcere.

Il giudice – spiega la promessa sposa – mi ha comunicato che abbiamo diritto di sposarci ma non di scegliere il luogo della cerimonia. Ci invita a celebrare le nozze nel carcere di Rebibbia, ma assolutamente non a Bovolone“.

Noi ricordiamo che spesso si parla di umanizzazione della pena e della funzione rieducativa (art. 27 Cost., co. 3), del contatto con i familiari ed il ruolo della famiglia che ha una incidenza rilevantissima e spesso addirittura decisiva.

L’uomo, è stato trasferito a dicembre dal carcere di Montorio (Verona) a Rebibbia, senza un motivo apparente.

Il magistrato di sorveglianza di Roma ha sottolineato che il permesso a spostarsi dal carcere “viene concesso in caso di imminente pericolo di vita di familiari o per eventi familiari di particolare gravità” non certamente per celebrare il matrimonio.

Formalmente per alcuni non ci sarà nulla da eccepire ma non è proprio così e proveremo a spiegarlo nel prosieguo, intanto la futura sposa sottolinea che: “Questo non vale solo per tutti i Nicolae di turno?

Perché solo pochi mesi fa, questo tipo di permesso veniva concesso a Chico Forti solo dopo due giorni dal suo arrivo in Italia a Montorio.

La mamma, che si recò a trovare a Trento, anziana sì, ma non in pericolo di vita. Nulla da dire sulla sensibilità del magistrato che lo ha concesso, ma tale attenzione dovrebbe esserci verso tutti. Cosa che non pare“.

Noi ci permettiamo di ricordare che ai fini della umanizzazione della pena e della sua funzione rieducativa (art. 27 Cost., co. 3), il contatto con i familiari ed il ruolo della famiglia abbia una incidenza rilevantissima e spesso addirittura decisiva, Cassazione, sezione 1, con la sentenza numero 41883/2024.

In siffatto contesto devono essere interpretati allora, i requisiti richiesti dalla norma per la concessione del permesso di necessità, requisiti che si individuano, tradizionalmente, in tre elementi: il carattere eccezionale della concessione, la particolare gravità dell’evento giustificativo, la correlazione di questo con la vita familiare.

In riferimento all’articolo 30 (Permessi) dell’Ordinamento Penitenziario, ricordiamo che ai fini della concessione del permesso di necessità previsto dall’art. 30, comma secondo, della legge 26 luglio 1975, n. 354, devono sussistere tre requisiti:

  • l’eccezionalità della concessione;
  • la particolare gravità dell’evento giustificativo;
  • la correlazione di tale evento con la vita familiare.

L’accertamento di questi requisiti di fatto deve essere compiuto dal giudice di merito, tenendo conto dell’idoneità dell’evento ad incidere nella vicenda umana del detenuto (fra le, altre, Sez. 1, n. 15953 del 27/11/2015, dep. 2016; Sez. 1, n. 46035 del 21/10/2014).

Ebbene, soffermiamoci su alcuni aspetti del permesso di necessità.

La condotta tenuta dal detenuto assume rilevanza per la concessione?

Secondo la Suprema Corte, sezione 1, sentenza numero 15953/2016 ai fini del riconoscimento dei presupposti del permesso di necessità i riferimenti al contegno non regolare del detenuto non attengono strettamente alla materia del permesso di necessità: è principio di ordinaria applicazione quello secondo il quale la condotta regolare perseverante del detenuto instante, pur se apprezzata, non rileva in questa sede peculiare, poiché il permesso di necessità prescinde del tutto dal ravvedimento del condannato, potendo essere concesso anche al detenuto che non abbia tenuto condotta corretta.

Di conseguenza i rilievi disciplinari non possono avere rilievo circa l’esame dei requisiti di concedibilità del permesso di necessità, ma possono, certo in modo doveroso, essere considerati sul versante della predisposizione di una scorta che accompagni il detenuto nel corso del permesso e della predisposizione di apposite cautele, connesse alla gravità dei reati commessi ed alla personalità del condannato, anche per come manifestatasi nel corso dell’espiazione.

Altro tema da evidenziare: la sicurezza pubblica può comprimere il diritto stesso sotteso alla norma dell’articolo 30 comma 2 Ordinamento Penitenziario?

Non appare inopportuno ripercorrere la storia normativa del beneficio de quo, poiché la dinamica legislativa offre conforto all’interpretazione che di seguito si enuncerà.

All’epoca dell’elaborazione dell’ordinamento penitenziario erano state segnalate due esigenze di ordine differente: in primo luogo, la necessità di dare disciplina legislativa a brevi permessi di uscita dall’istituto penitenziario per gravi esigenze familiari del detenuto; in secondo luogo, l’opportunità di attenuare l’isolamento derivante dalla vita carceraria mediante la concessione di brevi uscite destinate a favorire il mantenimento delle relazioni familiari e sociali.

La legge del 1975 non intese, però, corrispondere alla seconda delle due esigenze, dato che la previsione relativa a brevi permessi per mantenere vive le relazioni umane – pur se presente nel corso dei lavori parlamentari – non venne mantenuta nel testo poi approvato.

La necessità di soddisfare gravi esigenze familiari trovò invece un chiaro e ben delimitato riconoscimento nel comma 1 dell’art. 30 0.P., con il presupposto dell’imminente pericolo di vita del congiunto; peraltro, con il comma 2 del medesimo articolo si consentì, sia pure «eccezionalmente», la concessione di analoghi permessi per «gravi ed accertati motivi>>.

La flessibilità dell’espressione indusse la magistratura ad utilizzare la previsione con un certa ampiezza, per dare risposta, sia pure parziale, ad una serie di necessità ritenute meritevoli di considerazione: ma ciò diede luogo a critiche e preoccupazioni, anche sulla scia di episodi negativi avvenuti grazie a concessioni improprie del beneficio.

Così, a tale situazione intese porre rimedio la Legge n. 450/1977, che introdusse due innovazioni: anzitutto, modificò il comma 2 dell’art. 30 O.P., consentendo la concessione degli “analoghi permessi” solo “eccezionalmente per eventi familiari di particolare gravità”.

In secondo luogo, riconobbe al P.M. la facoltà di proporre reclamo avverso il provvedimento di concessione, con effetto sospensivo.

Con queste innovazioni l’istituto del permesso di necessità fu definitivamente caratterizzato in modo tale da non consentirne l’utilizzo come strumento del trattamento e da definirlo, invece, quale mero rimedio eccezionale, diretto ad evitare, per finalità di umanizzazione della pena, che all’afflizione propria della detenzione si sommasse inutilmente quella derivante all’interessato dall’impossibilità di essere vicino ai congiunti, o di adoperarsi in favore dei medesimi, in occasione di particolari avverse vicende della vita familiare.

Un suggello al nuovo assetto normativo venne poi dalla Corte costituzionale, con la dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità sollevata circa la limitazione della concedibilità agli eventi di natura familiare (Corte cost., n. 77/1984).

Una certa applicazione variegata proseguì, ma ciò sino all’introduzione nel 1986 del nuovo istituto del permesso-premio: con questa entrata in vigore si esaurì la tendenza ad una applicazione più ampia e la caratterizzazione dell’istituto del permesso di necessità restò indiscussa – in giurisprudenza e nella dottrina – quale strumento di umanizzazione della pena, idoneo a soddisfare soltanto il primo dei due principi enunziati dal comma 3 dell’art. 27 Cost.

Così oggi il permesso previsto dall’art. 30 O.P. al comma 2 può essere concesso – per espressa disposizione normativa – soltanto eccezionalmente e per eventi familiari di particolare gravità; detta disciplina è particolarmente ristretta, poiché possono prendersi in considerazione soltanto “eventi”, e cioè fatti storici ben specifici ed individuati, i quali siano di natura familiare e che assumano il carattere della particolare gravità.

È chiaro che il termine di gravità sopra richiamato non si riferisce soltanto ad un evento luttuoso o drammatico, ma deve essere inteso come un qualsiasi avvenimento particolarmente significativo nella vita di una persona.

La Cassazione nella sentenza 15953/2016 ha sottolineato che la formulazione normativa in vigore dal 1977, pur nell’intento di limitarne l’applicazione in via eccezionale, conferma, per l’istituto in discussione, il carattere di rimedio attraverso cui si è inteso evitare, per l’obiettivo di umanizzazione della pena, finalità di rilievo costituzionale, che l’afflittività connaturata alla detenzione si implementi e si aggiunga a quella derivante dalla impossibilità di essere vicino ai familiari più stretti e di adoperarsi in loro favore in occasione di particolari, avverse, vicende.

Di più, non può negarsi che, ai fini della umanizzazione della pena e della sua funzione rieducativa (art. 27 Cost., co. 3), il contatto con i familiari ed il ruolo della famiglia abbia una incidenza rilevantissima e spesso addirittura decisiva.

In siffatto contesto devono essere interpretati allora, i requisiti richiesti dalla norma per la concessione del permesso di necessità, requisiti che si individuano, tradizionalmente, in tre elementi: il carattere eccezionale della concessione, la particolare gravità dell’evento giustificativo, la correlazione di questo con la vita familiare.

Sul punto appare poi utile ulteriormente specificare, come contributo per l’interprete, che il profilo della eccezionalità si confonde con quello della particolare gravità dell’evento, nel senso che insieme essi concorrono a definire un fatto del tutto al di fuori della quotidianità, sia per il suo intrinseco rilievo fattuale, sia per la sua incidenza nella vita del detenuto e nella sua esperienza di isolamento carcerario.

Orbene, quanto alle finalità della norma si ribadiscono le considerazioni già innanzi esposte, dalle quali emerge una volontà legislativa certamente non orientata alla soffocazione interpretativa dell’istituto, viceversa voluto proprio perché, attraverso la sua sostanziale atipicità, possa trovare, con equilibrio e misura, puntuale applicazione in costanza di quelle ragioni profondamente umanitarie ispiratrici dell’istituto.

Ed allora ne consegue che, a fronte di questa congerie di finalità positive, non può essere semplicemente una argomentazione relativa ad esigenze di sicurezza pubblica ad impedire o comunque a comprimere in modo completo la possibilità per il detenuto di fruire di un permesso concepito per venire incontro a circostanze drammatiche della vita familiare: del resto, la normativa stessa, nel prevedere la possibilità di una scorta per il detenuto, offre una soluzione alle argomentazioni relative alla personalità dello stesso: il permesso di necessità può essere fruito con accompagnamento armato e con ogni altra cautela che renda lo stesso compatibile con le esigenze di ordine e di sicurezza pubblici.