Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 45810/2024, udienza del 14 novembre 2024, ha affermato che, in tema di giudizio di appello instaurato a seguito di ricorso della parte civile avverso il proscioglimento dell’imputato, il giudice procede all’esame comparativo delle prove orali e alla valutazione delle stesse ai fini della rinnovazione istruttoria in base al criterio civilistico del “più probabile che non” o della “probabilità prevalente”.
Il giudice non deve invece utilizzare il criterio processual-penalistico dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio”: difatti, posto che l’irrevocabilità della decisione sulla responsabilità penale per effetto della mancata impugnazione del pubblico ministero rende irreversibile l’accertamento favorevole all’imputato, con la conseguente necessità di recuperare gli “standard” probatori propri del giudizio civile e non sacrificare ulteriormente i diritti della parte civile, in applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza convenzionale, costituzionale e nomofilattica.
Serve ricordare per la sua pertinenza al tema la sentenza n. 182/2021 con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’ infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 578 del codice di procedura penale, sollevate in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, nonché in riferimento allo stesso art. 117, primo comma, e all’art. 11 Cost., in relazione agli artt. 3 e 4 della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007.
La Consulta ha chiarito nell’occasione che, a seguito della maturazione della prescrizione «il giudice dell’impugnazione penale, nel decidere sulla domanda risarcitoria, non è chiamato a verificare se si sia integrata la fattispecie penale tipica contemplata dalla norma incriminatrice, in cui si iscrive il fatto di reato di volta in volta contestato; egli deve invece accertare se sia integrata la fattispecie civilistica aquiliano (art. 2043 cod. civ.)»; precisando ulteriormente che «con riguardo al “fatto” – come storicamente considerato nell’imputazione penale – il giudice dell’impugnazione è chiamato a valutarne gli effetti giuridici, chiedendosi, non già se esso presenti gli elementi costitutivi della condotta criminosa tipica (commissiva od omissiva) contestata all’imputato come reato, contestualmente dichiarato estinto per prescrizione, ma piuttosto se quella condotta sia stata idonea a provocare un “danno ingiusto” secondo l’art. 2043 cod. civ., e cioè se, nei suoi effetti sfavorevoli al danneggiato, essa si sia tradotta nella lesione di una situazione giuridica soggettiva civilmente sanzionabile con il risarcimento del danno. Nel contesto di questa cognizione rilevano sia l’evento lesivo della situazione soggettiva di cui è titolare la persona danneggiata, sia le conseguenze risarcibili della lesione, che possono essere di natura sia patrimoniale che non patrimoniale».
