Il riconoscimento dell’imputato presente, operato in udienza, nel corso della deposizione da parte del testimone è la prova regina insormontabile o quasi.
La Cassazione sezione 2 con la sentenza numero 4779/2025 ci ricorda che il riconoscimento dell’imputato presente, operato in udienza, nel corso della deposizione da parte del testimone, trova il suo paradigma nella prova testimoniale proveniente da un soggetto che, nel corso della testimonianza, abbia accertato direttamente l’identità personale dell’imputato.
Esso deve, pertanto, essere tenuto distinto dalla ricognizione personale, disciplinata dall’art. 213, ed è inquadrabile tra le prove non disciplinate dalla legge di cui all’art.189 cod. proc. pen.
Nel caso esaminato, il ricorrente deduce la contraddittorietà tra l’individuazione fotografica effettuata nel corso delle indagini preliminari e il riconoscimento personale effettuato dalla persona offesa in udienza, davanti alla Corte di appello, con l’imputato presente.
A tale proposito la Corte di appello (alla pagina 3 della sentenza impugnata) ha spiegato che il riconoscimento personale effettuato in udienza è stato effettuato proprio al fine di superare le incertezze sulla identificazione ritenute dal g.i.p. e che avevano portato all’assoluzione dell’imputato. Incertezze circa le caratteristiche antropometriche che la Corte di appello ha ritenuto superate anche grazie alle precisazioni e ai chiarimenti offerti in udienza dalla persona offesa.
Le deduzioni difensive circa la denunciata contraddittorietà si mostra, dunque, inattuale, atteso che la Corte di appello ha spiegato che il riconoscimento personale effettuato in udienza e le precisazioni offerte dalla persona offesa nel corso della testimonianza avevano fatto superare le incertezze sull’identificazione del reo, che avevano portato all’assoluzione in primo grado.
Tanto viene icasticamente rappresentato nel brano di motivazione in cui (alla pag. 3) si riporta un’espressione resa dalla persona offesa nel corso del suo esame testimoniale, quando quella rimarcava: «io oggi ho riconosciuto lui e non la fotografia».
La Corte di appello, in sostanza, ha fondato il proprio giudizio di responsabilità sulla base del valore probatorio del riconoscimento personale effettuato in udienza, al cui proposito la Suprema Corte ha già spiegato che “il riconoscimento dell’imputato presente, operato in udienza, nel corso della deposizione da parte del testimone, trova il suo paradigma nella prova testimoniale proveniente da un soggetto che, nel corso della testimonianza, abbia accertato direttamente l’identità personale dell’imputato.
Esso deve, pertanto, essere tenuto distinto dalla ricognizione personale, disciplinata dall’art. 213, ed è inquadrabile tra le prove non disciplinate dalla legge di cui all’art.189 cod. proc. pen.” (Sez. 1, n. 3642 del 03/12/2004, dep. 2005, Izzo, Rv. 230781 – 01).
Ed ancora, “L’individuazione in dibattimento dell’autore del reato costituisce una prova atipica la cui affidabilità non deriva dal riconoscimento in sè, ma dalla credibilità della deposizione di chi si dica certo della identificazione” (Sez. 5, n. 28972 del 28/05/2013, Luongo, Rv. 257393).
Da ciò discende l’infondatezza dell’assunto difensivo, visto che la Corte di appello ha valorizzato (e disposta) la testimonianza resa in dibattimento dalla persona offesa proprio al fine di superare le incertezze riscontrate dal g.i.p. dalla lettura del verbale dell’individuazione fotografica effettuata in sede di indagini preliminari, così che non può ritenersi sussistente dedotta contraddittorietà in relazione ai mezzi di prova utilizzati per identificare l’autore della rapina.
