Cassazione penale, Sez. 5^, sentenza n. 3037/2025, udienza del 20 dicembre 2024, ha affermato che il riconoscimento del diritto all’assistenza dell’interprete non discende automaticamente, come atto dovuto e imprescindibile, dal mero “status” di straniero o apolide, ma richiede l’ulteriore presupposto, in capo a quest’ultimo, dell’accertata ignoranza della lingua italiana.
Provvedimento impugnato
Con ordinanza del 24 giugno 2024, il Tribunale di Roma convalidava l’arresto di RJ e di NZ per il delitto di furto aggravato loro contestato (ai sensi degli artt. 110, 624, 625 nn. 5 e 8 bis cod. pen. per essersi impossessati, in concorso con altri soggetti non identificati ed in quattro persone riunite fra loro, della somma di euro 4.900, sottraendola alla persona offesa mentre questa stava viaggiando in un vagone della metropolitana di Roma) e, preso atto della mancata richiesta di misura cautelare personale, ne ordinava l’immediata liberazione.
Ricorso per cassazione
Propongono ricorso gli indagati, con unico atto ed a mezzo del comune difensore, deducendo, con l’unico motivo, la violazione di legge ed in particolare dell’art. 143 cod. proc. pen.
La norma citata prevede che vengano tradotti gli atti processuali che riguardano indagati e imputati che non conoscono la lingua italiana, come impongono anche l’art. 6 Convenzione EDU e gli artt. 24 e 111 Cost.
Principi validi anche nel caso di specie ove gli indagati non avevano un livello linguistico tale da consentire loro di comprendere il significato legale e il contenuto effettivo degli atti loro indirizzati (così, sentenza Corte cost. n. 10/1993).
Incomprensione che trovava conferma nel fatto che, nonostante che, in sede di interrogatorio di garanzia, RJ avesse negato l’addebito e NZ si fosse avvalso della facoltà di non rispondere, avessero poi deciso di patteggiare la pena.
Decisione della Corte di cassazione
I ricorsi promossi nell’interesse dei prevenuti non meritano accoglimento.
In ordine, infatti, alla necessità di tradurre gli atti notificati (o di munirlo di interprete, durante la celebrazione delle udienze) agli imputati alloglotti si è precisato che: – il riconoscimento del diritto all’assistenza dell’interprete non discende automaticamente, come atto dovuto e imprescindibile, dal mero “status” di straniero o apolide, ma richiede l’ulteriore presupposto, in capo a quest’ultimo, dell’accertata ignoranza della lingua italiana (fattispecie in cui, avendo il ricorrente lamentato la mancata traduzione, nella lingua madre o in inglese, del decreto di sequestro preventivo, la Corte ha ritenuto congruamente accertata in sede di merito la sua dimestichezza con l’idioma italiano, sottolineando, peraltro, che la non recente acquisizione della cittadinanza italiana per effetto di matrimonio gli avrebbe imposto l’onere, non assolto, della prova contraria alla presunzione stabilita nell’art. 143, comma primo, cod. proc. pen.: Sez. U, n. 25932 del 29/05/2008, Ivanov, Rv. 239693 – 01).
Ed ancora, in tema di traduzione degli atti, ex art. 143 cod. proc. pen., come modificato dal d. lgs. n. 32 del 2014, il diritto all’assistenza all’interprete non discende automaticamente dallo “status” di straniero o apolide, ma richiede l’ulteriore presupposto indefettibile dell’accertata incapacità di comprensione della lingua italiana. In motivazione la Corte ha valorizzato la circostanza che in nessun momento dell’iter processuale l’imputato aveva evidenziato detta incapacità di comprensione e che lo stesso aveva personalmente presentato istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato: Sez. 2, n. 30379 del 19/06/2018, Rv. 273246 – 01).
Ulteriormente, il diritto dell’imputato straniero ad essere assistito da un interprete sussiste a condizione che egli dimostri o quantomeno dichiari di non sapersi esprimere in lingua italiana o di non comprenderla, atteso che l’art. 143 cod. proc. pen. non prevede l’obbligo indiscriminato della nomina di un interprete allo straniero in quanto tale, ma lascia a costui la libertà di decidere se richiedere, o meno, tale assistenza, attribuendo all’autorità giudiziaria il potere-dovere di valutarne la necessità (Sez. 2, n. 17327 del 20/01/2023, Rv. 284528 – 01).
Note di commento
La decisione esposta in precedenza è una delle tante che minimizzano e banalizzano garanzie rilevanti poste dall’ordinamento a tutela dell’accusato in sede penale.
Come sempre, è meglio partire dalle fonti normative di riferimento, iniziando dalla legislazione ordinaria.
Viene anzitutto in rilievo il comma 4-bis dell’art. 104 cod. proc. pen. la cui aggiunta si deve all’art. 1, comma 1, lettera a), d. lgs. n. 32/2014, a sua volta attuativo della direttiva 2010/64/UE sull’assistenza linguistica.
Il comma in questione dispone che “L’imputato in stato di custodia cautelare, l’arrestato e il fermato, che non conoscono la lingua italiana, hanno diritto all’assistenza gratuita di un interprete per conferire con il difensore a norma dei commi precedenti. Per la nomina dell’interprete si applicano le disposizioni del titolo IV del libro II”.
A sua volta, la lettera b) del medesimo art. 1, comma 1, ha interamente sostituito l’art. 143 cod. proc. pen., ora rubricato “Diritto all’interprete e alla traduzione di atti fondamentali”, così riformulato:
“1. L’imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente, indipendentemente dall’esito del procedimento, da un interprete al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti e lo svolgimento delle udienze cui partecipa. Ha altresì diritto all’assistenza gratuita di un interprete per le comunicazioni con il difensore prima di rendere un interrogatorio, ovvero al fine di presentare una richiesta o una memoria nel corso del procedimento.
2. Negli stessi casi l’autorità procedente dispone la traduzione scritta, entro un termine congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e della facoltà della difesa, dell’informazione di garanzia, dell’informazione sul diritto di difesa, dei provvedimenti che dispongono misure cautelari personali, dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, dei decreti che dispongono l’udienza preliminare e la citazione a giudizio, delle sentenze e dei decreti penali di condanna.
3. La traduzione gratuita di altri atti o anche solo di parte di essi, ritenuti essenziali per consentire all’imputato di conoscere le accuse a suo carico, può essere disposta dal giudice, anche su richiesta di parte, con atto motivato, impugnabile unitamente alla sentenza.
4. L’accertamento sulla conoscenza della lingua italiana è compiuto dall’autorità giudiziaria. La conoscenza della lingua italiana è presunta fino a prova contraria per chi sia cittadino italiano.
5. L’interprete e il traduttore sono nominati anche quando il giudice, il pubblico ministero o l’ufficiale di polizia giudiziaria ha personale conoscenza della lingua o del dialetto da interpretare.”.
Come già detto, le due norme appena citate sono il frutto del recepimento della direttiva 2010/64/UE sull’assistenza linguistica ed in particolare dei suoi artt. 2/5.
Qui basta tuttavia riportare il “considerando” 14 per i quale “Il diritto all’interpretazione e alla traduzione per coloro che non parlano o non comprendono la lingua del procedimento è sancito dall’articolo 6 della CEDU, come interpretato nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. La presente direttiva facilita l’applicazione di tale diritto nella pratica. A tal fine, lo scopo della presente direttiva è quello di assicurare il diritto di persone indagate o imputati all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali al fine di garantire il loro diritto ad un processo equo”.
Sempre in tema di fonti sovranazionali, si deve ricordare l’art. 6 comma 3, lettere c) ed e), CEDU, che attribuiscono rispettivamente all’accusato il diritto di essere informato, nel più breve tempo possibile, in una lingua a lui comprensibile e in modo dettagliato, della natura e dei motivi dell’accusa formulata a suo carico e di farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza.
Ultimo riferimento ma non certo per importanza è l’art. 111, comma 3, Cost. il cui ultimo periodo esige che la persona accusata di un reato “sia assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo”.
A conclusione di questa breve rassegna, si possono tenere per fermi i seguenti punti:
- l’accusato in sede penale che non conosce la lingua del Paese ove si svolge il procedimento a suo carico ha il diritto di essere assistito da un interprete per comprendere l’accusa di cui è chiamato a rispondere e ciò che accade nel procedimento ed ancora per potere comunicare col suo difensore ai fini delle iniziative da intraprendere;
- tale diritto è parte integrante e imprescindibile dell’equo processo per la Costituzione, per la CEDU, per il diritto eurounitario;
- nessuna delle fonti normative citate prevede deroghe all’assolutezza del diritto in esame.
Prima di chiudere può servire riportare integralmente un passaggio particolarmente pertinente della sentenza della Corte EDU, prima sezione, causa Knox c. Italia (ricorso n.76577/13) del 24 gennaio 2019.
“182. La Corte rammenta che, ai sensi del paragrafo 3 e) dell’articolo 6 della Convenzione, l’imputato che non comprende o non parla la lingua utilizzata in udienza ha diritto ai servizi gratuiti di un interprete affinché gli siano tradotti o interpretati tutti gli atti del procedimento avviato a suo carico di cui gli serva, per beneficiare di un processo equo, cogliere il senso o farlo rendere nella lingua utilizzata dal tribunale. L’assistenza data in materia di interpretazione deve permettere all’imputato di sapere ciò che gli viene addebitato e di difendersi, in particolare fornendo al tribunale la sua versione dei fatti. Il diritto così sancito deve essere concreto ed effettivo. Pertanto, le autorità competenti non hanno solo il dovere di nominare un interprete, ma anche, una volta allertate in un determinato caso, quello di esercitare un certo controllo a posteriori per quanto riguarda il valore dell’interpretariato fornito (Hermi c. Italia [GC], n. 18114/02, § 80, CEDU 2006 XII, Kamasinski c. Austria, 19 dicembre 1989, § 74, serie A n. 168, Güngör c. Germania (dec.), n. 31540/96, 17 maggio 2001, Cuscani c. Regno Unito, n. 32771/96, § 39, 24 settembre 2002, Protopapa c. Turchia, n. 16084/90, § 80, 24 febbraio 2009 e Vizgirda c. Slovenia, n. 59868/08, §§ 75-79, 28 agosto 2018).
183. Inoltre, come l’assistenza di un avvocato, quella di un interprete deve essere garantita fin dalla fase delle indagini, a meno che non sia dimostrato che esistono ragioni imperiose per limitare tale diritto (si veda, in tal senso, Diallo c. Svezia (dec.), n. 13205/07, § 25, 5 gennaio 2010, Baytar c. Turchia, n. 45440/04, §§ 50 e seguenti, 14 ottobre 2014, e Şaman c. Turchia, n. 35292/05, § 30, 5 aprile 2011).
Principi, concetti e norme che più chiari non si potrebbe.
Li si confronti adesso con le argomentazioni della sentenza qui annotata.
Il collegio di legittimità parte da una corretta constatazione, direttamente derivante dalla lettera dell’art. 143, comma 1, cod. proc. pen.: il diritto all’assistenza dell’interprete spetta solo a chi non conosce la lingua italiana.
Le affianca una seconda ed ugualmente corretta notazione: lo status di straniero o apolide non implica di per se stesso l’ignoranza dell’italiano, essendo ben possibile che costoro conoscano quanto basta la nostra lingua.
Subito dopo, tuttavia, inizia il ricorso a considerazioni opinabili.
Si impone, anzitutto, un’osservazione di fondo, banale ma non per questo meno vera: affermare l’ovvia possibilità che uno straniero o un apolide conoscano l’italiano non esclude la possibilità opposta né, tantomeno, significa averlo dimostrato.
Viene poi valorizzato, tra gli altri, il comportamento inerte dell’accusato, vale a dire l’assenza di sue iniziative volte ad evidenziare la sua incapacità di incomprensione dell’italiano.
Non occorrono ragionamenti sofisticati per dimostrare quanto tautologica e contraddittoria sia quest’affermazione: non si vede infatti come una persona che non comprende l’italiano possa essere consapevole che deve fare qualcosa per dimostrare di non comprenderlo.
La contraddizione è ancora più forte ove si consideri che altre decisioni della S.C. hanno valorizzato il comportamento non completamente inerte dell’accusato e gli ulteriori suoi accenni di aver capito qualcosa di ciò che gli avviene attorno come sintomo rivelatore della sua sufficiente padronanza della lingua italiana.
Non rimanere inerti significa verosimilmente fare qualcosa ma i giudici di legittimità non spiegano cosa, preferendo mantenersi sul vago.
Lo stesso può dirsi riguardo al mostrare in qualche modo di aver capito il senso di ciò che avviene. È un’espressione generica che dice tutto e nulla: se un imputato comprende alla lontana il senso minimale di una domanda posta dal PM e di una risposta data da un teste, ciò non equivale ovviamente ad aver compreso il valore processuale dell’una e dell’altra, le conseguenze che possono derivarne e le eventuali iniziative reattive utili per contrastarle.
Concetti inservibili, dunque, che tuttavia, se ripresi tali e quali dal giudice di merito allo scopo di attestare la sufficiente conoscenza dell’italiano dell’imputato alloglotta, saranno considerati corretti ed esaustivi e per ciò stesso insindacabili dal giudice di legittimità.
Piacerebbe che la negazione di un diritto partecipativo essenziale sia frutto di considerazioni ben più consistenti di queste ma, a quanto pare, c’è ancora da attendere.
