Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 7300/2024, udienza del 20 dicembre 2023, ha ribadito che costituisce principio di diritto ormai consolidato quello secondo cui le dichiarazioni “indizianti”, a cui fa riferimento l’art. 63, comma 1, cod. proc. pen., sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale, non invece quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico in una determinata figura di reato quale il favoreggiamento personale, la calunnia o la falsa testimonianza (Sez. 6, n. 33836 del 13/05/2008, Rv. 240790; Sez. 2, n. 29581 del 07/07/2006, Rv. 234969); la giurisprudenza di legittimità ha, infatti, osservato come la suddetta norma di garanzia è ispirata al principio “nemo tenetur se detegere” che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato e non quella che il reato debba ancora commettere (Sez. 6, n. 21116 del 31/03/2004, Rv. 229024; Sez. 3, n. 8634 del 18/09/2014, M., Rv. 262511).
Si tratta di indirizzi ermeneutici che sono stati confermati dalle Sezioni unite penali le quali hanno chiarito che, se il dichiarante non è chiamato a rispondere di fatti diversi da quelli che integrano il tessuto delle sue dichiarazioni, non si realizza nessuna incompatibilità con l’ufficio di testimone, ponendosi solo un problema di attendibilità della deposizione da valutarsi secondo gli ordinari canoni, e non secondo la regola prevista dagli agli artt. 192, commi 3 e 4, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, Lo Presti, Rv. 264481 – 01).
La citata decisione, che ha fatto chiarezza in ordine allo statuto del dichiarante “debole”, ha avuto modo di svolgere ulteriori considerazioni relative ai criteri di attribuzione della qualità di imputato o indagato di reato connesso o collegato, nelle ipotesi in cui siano state proprio le dichiarazioni a far insorgere, nei confronti del soggetto sentito, elementi indizianti del reato di favoreggiamento, di false informazioni al pubblico ministero o di calunnia: non sussistono motivi per ritenere che il principio non sia applicabile al caso in cui si realizzi il delitto di depistaggio – condotta provvisoriamente contestata al ricorrente – per mezzo di dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria.
Le Sezioni unite hanno statuito l’utilizzabilità di dichiarazioni rese dal soggetto che, al momento della deposizione o della verbalizzazione dell’atto di indagine (sommarie informazioni o assunzione di informazioni), rivestiva soltanto lo status di persona informata sui fatti, a nulla rilevando che il dichiarante abbia successivamente assunto la veste di imputato o indagato (cfr. in tal senso, Sez. 2, n. 38621 del 9 ottobre 2007, Rv. 238222) e si è affermato che «non si può “divenire” incompatibili con l’ufficio di testimone proprio a causa della funzione che si è legittimati a svolgere in quanto con essa compatibili», nel senso che, se il dichiarante è chiamato a rispondere solo dei reati che integrano il tessuto della sua deposizione, egli rimane compatibile con l’ufficio di testimone, ponendosi solo un problema di attendibilità delle dichiarazioni.
Il mutamento dello status di dichiarante può, infatti, configurarsi, per le Sezioni unite, solo qualora emerga una concorrente responsabilità di costui nel reato cui la deposizione si riferisce, o per altro reato connesso o collegato, senza che ciò costituisca una diretta conseguenza della deposizione.
