Esame del DNA: valore probatorio del suo esito e della condotta di chi rifiuta di acconsentire al prelievo biologico necessario per la comparazione genetica (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 645/2025, udienza del 21 novembre 2024, ha riassunto gli attuali orientamenti interpretativi riguardo al valore da attribuire ai risultati dell’esame del DNA ed al rifiuto di acconsentire al prelievo di un campione biologico.

Sentenza impugnata

Con il provvedimento impugnato, la Corte di assise di appello ha confermato la sentenza pronunciata in data 2 novembre 2022 dalla Corte di assise con la quale GP è stato condannato, con la riduzione prevista dall’articolo 438, comma 4-ter, cod. proc. pen. a causa dell’esclusione delle circostanze aggravanti a effetto speciale originariamente contestate — che avevano impedito l’accesso al rito abbreviato —, alla pena di quindici anni di reclusione, oltre alle pene accessorie di legge e al risarcimento del danno in favore delle parti civili, per l’omicidio di PDA, commesso colpendolo con ventidue colpi in varie parti del corpo mediante uno scalpello o cesello e un martello.

Con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito, è stata affermata la responsabilità dell’imputato per il sopraindicato delitto sulla base degli accertamenti tecnico-scientifici relativi alla consulenza anatomopatologica sulle cause della morte e sulla comparazione e analisi del tracciato del DNA dell’imputato con le tracce rinvenute sul corpo della vittima, nonché sui tracciati dei tabulati telefonici, e sulla base delle investigazioni di polizia giudiziaria, delle dichiarazioni dei testimoni e dei consulenti. In particolare, secondo i giudici di merito l’omicidio di PDA è stato commesso da una sola persona che lo ha aggredito, all’interno del suo laboratorio, con numerosi colpi inferti con uno strumento tagliente e un martello, rinvenuti sulla scena del crimine, e poi spostato, trascinandolo al suolo per le gambe, all’interno del suddetto laboratorio così da ostacolarne il rinvenimento, che difatti avveniva nei giorni successivi.

All’individuazione dell’imputato si è giunti attraverso la comparazione, cui si era opposto il ricorrente, del suo profilo genetico con le tracce lasciate sui pantaloni della vittima, nonché sulla base della presenza dell’imputato in prossimità del luogo dell’omicidio a fronte della allegazione di un alibi risultato falso.

Ricorso per cassazione

Ricorre GP, a mezzo del difensore, che chiede l’annullamento della sentenza impugnata, denunciando la violazione di legge e il vizio della motivazione, per la insussistenza di sufficienti elementi a carico dell’imputato nonché il mancato esame di ipotesi alternative pur dotate di alta credibilità.

Il difensore osserva, per ciò che qui rileva, che non è stato accertato il momento nel quale il DNA dell’imputato si è trasferito sui pantaloni della vittima, sicché l’elemento probatorio non è univoco, mentre i giudici di merito fanno unicamente leva, per fondare la responsabilità, sul rifiuto opposto dall’imputato al prelievo di un campione del proprio materiale genetico.

Tale rifiuto, del resto, è stato superficialmente opposto dall’imputato in considerazione del consiglio legale offertogli da un difensore, sicché non può essere valorizzato a suo carico. D’altra parte, i giudici di merito hanno illegittimamente utilizzato le dichiarazioni rese da GP alla polizia giudiziaria, che lo esaminava quale persona informata sui fatti, circa il rinvenimento del suo DNA sui pantaloni della vittima: le dichiarazioni non potevano essere utilizzate, come anche i giudici di merito riconoscono, perché indizianti. I giudici di merito hanno erroneamente e immotivatamente giudicato non plausibili e non dimostrate le giustificazioni offerte dall’imputato che aveva riferito di essersi in precedenza recato nell’abitazione della vittima, notando alcuni indumenti sul tavolo.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso, che presenta numerose doglianze inammissibili, è nel complesso infondato.

Le censure che riguardano la ricostruzione in fatto compiuta dai giudici di merito sono inammissibili.

È doveroso premettere che i giudici di merito hanno valorizzato i seguenti elementi:

– la morte di PDA risale, secondo la non contestata ricostruzione scientifica effettuata dai consulenti medico-legali, tra la notte del 21 e la tarda sera del 23 novembre 2019;

– ulteriori elementi di fatto, che il ricorso non contesta, hanno portato a restringere l’ambito temporale della morte al pomeriggio del 22 novembre 2019; in particolare, PDA è stato visto in vita alle ore 9:45 del 22 novembre 2019 e ha navigato su internet con il proprio computer portatile dalla propria abitazione fino alle ore 11:04 del 22 novembre 2019; più precisamente, l’ambito temporale dell’omicidio è stato ulteriormente ristretto al pomeriggio del 22 novembre perché, secondo quanto risulta dai tabulati telefonici della vittima, egli ha effettuato una chiamata in uscita alle ore 15:06, mentre alle successive ore 19:21 è stata registrata una chiamata in entrata con messaggio di scollegamento dell’utenza;

– l’omicidio è stato compiuto, secondo la non contestata ricostruzione dei consulenti e dei tecnici del RIS, da una sola persona che ha colto PDA quasi sulla soglia della porta di accesso al magazzino pertinenziale della sua abitazione;

– immediatamente dopo la morte, l’aggressore ha trascinato per i piedi il corpo di D’Amico più all’interno del magazzino; – il rinvenimento di tracce del DNA dell’imputato in corrispondenza della parte terminale di entrambe le gambe dei pantaloni indossati dalla vittima;

– le tracce del DNA, come il ricorso non contesta, derivano da un prolungato e serrato contatto che ha determinato il trasferimento di essudato di materiale biologico (sudore umano misto a tessuti da sfaldamento superficiale della pelle), ritenuto dai tecnici il frutto del contatto fisico derivante dall’azione di trascinamento del cadavere attuata immediatamente dopo l’omicidio; – il rifiuto ingiustificato opposto dall’imputato di sottoporsi al prelievo del DNA senza metodi invasivi;

– l’esistenza di rapporti con la vittima relativi alla cessione di stupefacenti; la presenza, derivante dall’esame dei tabulati telefonici, del telefono – dell’imputato nelle vicinanze dell’abitazione della vittima in orario compatibile con l’omicidio;

– il falso alibi relativo ai movimenti dell’imputato il pomeriggio nel quale è stato commesso l’omicidio.

Quanto si è sopra ricordato consente anzitutto di rilevare la manifesta infondatezza della doglianza difensiva che addebita alla Corte territoriale di avere effettuato la datazione dell’omicidio, non tanto sulla base degli accertamenti tecnici, quanto piuttosto – ed erroneamente — in riferimento all’orario nel quale il telefono dell’imputato si trovava in una zona compatibile con il luogo dell’omicidio. L’asserzione difensiva è manifestamente infondata poiché l’orario del rilevamento del telefono dell’imputato nei pressi dell’abitazione della vittima è stato impiegato, una volta individuato l’ambito temporale dell’omicidio sulla base delle prove scientifiche, documentali e circostanziali, per rafforzare dal punto di vista indiziarlo il quadro probatorio che ascrive a GP l’azione omicida. Egli, infatti, oltre ad avere lasciato le proprie tracce biologiche sul corpo della vittima, è risultato presente nelle vicinanze dell’abitazione di PDA proprio nell’arco temporale nel quale l’omicidio è stato commesso. È bene, infatti, ricordare che il ricorso non contesta le risultanze dell’analisi tecnica dei tabulati telefonici dell’imputato e della vittima dai quali emerge che i due erano in contatto e che verosimilmente avevano fissato il precedente 21 novembre 2019 ore 13:35 un appuntamento proprio per il giorno dell’omicidio, tanto che il cellulare del ricorrente è stato rilevato in prossimità dell’abitazione della vittima alle ore 16:06 del 22 novembre 2019, mentre l’omicidio è stato commesso tra le ore 15:06 e le ore 19:12 del 22 novembre 2019.

Quanto al valore di prova dell’esame del DNA è utile ricordare che «in tema di prove, gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova piena e non di mero elemento indiziario, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, sicché sulla loro base può essere affermata la penale responsabilità dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti» (si veda, da ultimo, Sez. 2, n. 38184 del 06/07/2022).

Non è, in effetti, contestato che il DNA rinvenuto sui pantaloni della vittima proviene dall’imputato alla luce dell’elevatissimo indice di identificazione riscontrato, nel caso di specie pari a 1023, mentre la scienza ritiene sufficiente per la certa identificazione un indice che supera 106.

Il ricorso imputa alla sentenza di non avere però accertato quando il trasferimento si sarebbe verificato, così opinando per la non decisività della traccia da contatto (contatto cd. secondario o occasionale).

La difesa si duole, in sostanza, che la sentenza abbia affermato che la semplice attribuzione del DNA all’imputato costituisce elemento di prova e non di semplice indizio della realizzazione dell’omicidio, evidenziando che tale elemento, semmai, costituisce un indizio poiché rappresenta un fatto statico (presenza di una traccia), rispetto al fatto da provare (omicidio) che è caratterizzato da una azione dinamica. In realtà, la sentenza impugnata attribuisce valore di prova (e non di semplice indizio) all’identificazione genetica compiuta per mezzo dell’analisi del DNA, sicché afferma che la traccia appartiene senza ombra di dubbio all’imputato, con ciò facendo corretta applicazione del principio di diritto costantemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative, tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, presentano natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen.» (Sez. 1, n. 48349 del 30/06/2004, seguita da Sez. 2, n. 43406 del 01/06/2016, secondo la quale «gli esiti dell’indagine genetica condotta sul DNA hanno natura di prova, e non di mero elemento indiziario ai sensi dell’art. 192, comma secondo, cod. proc. pen, sicché sulla loro base può essere affermata la responsabilità penale dell’imputato, senza necessità di ulteriori elementi convergenti», e da Sez. 2, n. 8434 del 05/02/2013).

Il ricorso non contesta che le tracce biologiche dell’imputato individuate su entrambi i pantaloni della vittima sono state rilevate e repertate in prossimità delle parti prossimali del capo di abbigliamento, cioè in coincidenza con quella parte dell’indumento che copre le caviglie della vittima.

Tale elemento, che i giudici di merito hanno specificamente valorizzato per collegare le tracce biologiche con l’azione di trascinamento del corpo compiuta dall’aggressore, non è in alcun modo criticato dal ricorso, mentre logicamente conduce a escludere la casualità del contatto. Del resto, è logico affermare, per attribuire al ritrovamento del DNA la valenza di prova dell’omicidio, che la posizione bilaterale delle tracce, rinvenute su entrambe le gambe dei pantaloni, e la loro localizzazione, in coincidenza delle caviglie della vittima, costituiscono due specifici elementi di prova che riportano dette tracce all’azione di trascinamento del corpo compiuta dall’omicida, così assegnando al DNA una valenza di prova dell’azione violenta e non solo del contatto tra aggressore e vittima.

La sentenza, quindi, afferma, facendo corretta applicazione delle regole probatorie, che detta prova abbraccia anche la responsabilità per l’omicidio poiché la traccia genetica è stata rinvenuta in una specifica e significativa posizione (entrambe le porzioni prossimali dei pantaloni indossati dalla vittima), in presenza di un complessivo quadro interpersonale che porta a escludere la contaminazione casuale.

È stato escluso che la traccia possa essersi depositata sull’indumento in un diverso contesto di relazione, sicché appare inapplicabile il principio di diritto secondo il quale «in tema di indagini genetiche, l’analisi comparativa del DNA svolta in violazione delle regole procedurali prescritte dai Protocolli scientifici internazionali in materia di repertazione e conservazione dei supporti da esaminare, nonché di ripetizione delle analisi, comporta che gli esiti di “compatibilità” del profilo genetico comparato non abbiano il carattere di certezza necessario per conferire loro una valenza indiziante, costituendo essi un mero dato processuale, privo di autonoma capacità dimostrativa e suscettibile di apprezzamento solo in chiave di eventuale conferma di altri elementi probatori» (Sez. 5, n. 36080 del 27/03/2015; in detto caso, infatti, si sospettava che, a causa di una violazione delle modalità di repertazione, fosse stato possibile un trasferimento del DNA dell’imputato, che frequentava la casa della vittima, sul reperto campionato e analizzato). In particolare, i giudici di merito hanno sottolineato, senza ricevere una critica specifica, che la difesa non aveva dedotto alcun elemento concreto a sostegno dell’ipotesi del cd. trasferimento secondario od occasionale che è stata introdotta e sviluppata con l’atto di appello, non potendosi valorizzare la generica affermazione fatta dall’imputato che, allorché venne sentito come persona informata sui fatti, aveva riferito agli operanti di essersi recato in epoca imprecisata nell’abitazione della vittima notando la presenza sul tavolo dei “panni della vittima piegati».

L’affermazione dei giudici di merito, secondo i quali l’ipotesi difensiva oltre ad essere indimostrata e pure implausibile, è avversata dalla difesa che si limita però a ribadirla.

La critica difensiva è vana perché sono proprio le dichiarazioni dell’imputato, sulle quali è stata sviluppata la tesi difensiva, che sono generiche e francamente incredibili in quanto egli non colloca temporalmente l’episodio e neppure afferma che vi è stato un prolungato contatto con entrambe le parti prossimali dei pantaloni indossati dalla vittima, limitandosi a dichiarare che un certo giorno c’erano dei capi di abbigliamento sul tavolo nell’abitazione della vittima. Orbene, se neppure l’imputato ha fornito elementi per ipotizzare il cd. trasferimento occasionale o secondario, la difesa si è, poi, prodigata per contestare l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese.

Su tale ultima questione è, tuttavia, doveroso precisare che le dichiarazioni dell’imputato sono state valorizzate dalla difesa a favore del proprio assistito e cioè per sostenere la tesi del cd. trasferimento occasionale o secondario, sicché essa non ne può poi chiedere l’espunzione dal panorama probatorio solo perché la tesi è stata giudicata manifestamente infondata.

Deve, in proposito, farsi convinto richiamo all’autorevole precedente giurisprudenziale secondo il quale «le dichiarazioni della persona che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere sentita come indagata o imputata sono inutilizzabili anche nei confronti dei terzi, sempre che provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato ovvero a reato connesso o collegato con quello attribuito al terzo, per cui dette dichiarazioni egli avrebbe avuto il diritto di non rendere se fosse stato sentito come indagato o imputato; restano invece al di fuori della sanzione di inutilizzabilità comminata dal secondo comma dell’art. 63 cod. proc. pen. le dichiarazioni riguardanti persone coinvolte dal dichiarante in reati diversi, non connessi o collegati con quello o quelli in ordine ai quali esistevano fin dall’inizio indizi a suo carico, poiché rispetto a questi egli si trova in una posizione di estraneità ed assume la veste di testimone; restano escluse altresì dalla sanzione di inutilizzabilità, alla stregua della “ratio” della disposizione, ispirata alla tutela del diritto di difesa, le dichiarazioni favorevoli al soggetto che le ha rese ed a terzi, quali che essi siano, non essendovi ragione alcuna di escludere dal materiale probatorio elementi che con quel diritto non collidono» (Sez. U, n. 1282 del 09/10/1996 – dep. 1997, in motivazione la Corte ha inoltre chiarito che i casi di irregolarità di assunzione delle dichiarazioni di colui che viene sentito come indagato o imputato – omesso avviso al difensore o simili – esulano dalla disciplina dell’art. 63, secondo comma, cod. proc. pen. in quanto rientranti nella sfera delle nullità, riguardanti solo la persona nell’interesse della quale le formalità sono previste; in seguito, Sez. 1, n. 7258 del 24/03/1999; recentemente, Sez. 4, n. 30794 del 15/02/2022).

Deve, perciò, affermarsi che l’esito dell’indagine genetica condotta sul DNA, atteso l’elevatissimo numero delle ricorrenze statistiche confermative tale da rendere infinitesimale la possibilità di un errore, lungi dall’avere valore meramente indiziario, ai sensi dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., ha natura di prova dell’identità del contributore, sicché costituisce a carico del medesimo la prova del fatto-reato, secondo un percorso logico deduttivo che poggia sulla particolare localizzazione della traccia e dei rapporti tra le parti, in forza dei quali debba escludersi un contatto da trasferimento secondario od occasionale.

Costituisce elemento di prova a carico, come correttamente affermato dai giudici di appello, il rifiuto opposto dall’imputato a consentire al prelievo non invasivo di un campione biologico ai fini di estrarre il suo DNA da raffrontare con quello rinvenuto sulla scena del crimine.

Non vi è dubbio, anzitutto, che il ricorrente, quando non soltanto non era indagato, ma anzi quando neppure era tra i sospettati, ha rifiutato di consentire al prelievo di un campione biologico allorché ciò gli fu richiesto al pari di altre decine di persone che erano in contatto con la vittima per le più disparate ragioni; nella circostanza, peraltro, il rifiuto fu perentorio, reiterato e immotivato. I

l rifiuto, in particolare, dimostra che l’imputato era ben consapevole del contesto omicida nel quale aveva lasciato le tracce biologiche rinvenute sui pantaloni della vittima, perché diversamente si sarebbe messo a disposizione degli inquirenti senza attendere oltre un anno dall’omicidio ed essere appositamente convocato dalla polizia giudiziaria, alla quale non ha però riferito di avere avuto rapporti amicali con la vittima e di averla anche incontrata nella sua abitazione al cospetto dei suoi indumenti, riservando tale incredibile dichiarazione alla fase successiva all’esame del suo DNA, risultato identico a quello rinvenuto sugli indumenti della vittima.

Premesso che è priva di qualunque valenza, ai fini di sminuire la portata probatoria del rifiuto, l’asserzione difensiva secondo la quale esso fu opposto a cagione di un consiglio legale poiché, quale che sia il contributo offerto da terzi alla decisione dell’imputato, nessuno dubita che la scelta del ricorrente non sia stata libera e ponderata, sicché essa gli è indiscutibilmente addebitabile. Del resto, come hanno evidenziato i giudici di merito, il rifiuto si inserisce in un più ampio contegno finalizzato a non essere attinto dalle indagini o, comunque, a sviarle: in disparte la questione dell’alibi falso, l’imputato, oltre a rifiutare di consegnare un campione biologico, aveva anche trovato un lavoro in un’altra regione nella quale voleva trasferirsi senza neppure averne parlato con la propria fidanzata, a ulteriore dimostrazione della preoccupazione, intimamente radicata, di potere essere identificato quale autore dell’omicidio.

Tanto premesso, deve essere ricordato che la giurisprudenza di legittimità è orientata ad attribuire valore di prova all’immotivato e ingiustificato rifiuto di fornire una campione biologico con procedure non invasive. Si è da tempo chiarito che «il rifiuto dell’imputato di consegnare o lasciar prelevare materiale biologico utile alla comparazione del DNA, quando non siano state prospettate allo scopo modalità invasive o comunque lesive dell’integrità e della libertà personale, costituisce, se non motivato con giustificazioni esplicite e fondate, elemento di prova valutabile dal giudice a fini di ricostruzione del fatto» (Sez. 2, n. 44624 del 08/07/2004, in tema di riscontro individualizzante della chiamata in correità; Sez. 1, n. 37108 del 20/09/2002). L’orientamento giurisprudenziale non risente delle modifiche introdotte nella materia a seguito dell’entrata in vigore della legge 30 giugno 2009, n. 85, che ha introdotto l’art. 224-bis cod. proc. pen. con la rubrica «Provvedimenti del giudice per le perizie che richiedono il compimento di atti idonei ad incidere sulla libertà personale», il quale prevede, appunto, il prelievo coattivo, evenienza diversa da quella verificatasi nel caso di specie.

Va, in proposito, rammentato che la Corte costituzionale, con sentenza n. 238 del 1996, aveva dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 224, comma 2, del codice di procedura penale nella parte in cui consente che il giudice, nell’ambito delle operazioni peritali, disponga misure che comunque incidano sulla libertà personale dell’indagato o dell’imputato o di terzi, al di fuori di quelle specificamente previste nei “casi” e nei “modi” dalla legge», invitando il legislatore a regolare, come poi è avvenuto nel 2009, i prelievi coattivi.

Tale pronuncia non ha però influito sulla regola di giudizio che attribuisce rilievo probatorio al rifiuto opposto dall’indagato di consentire il prelievo di campioni biologici in modo non invasivo, similmente a quanto accade per analoghi comportamenti oppositivi (Sez. 2, n. 41770 del 11/07/2018, ha ribadito che «il rifiuto ingiustificato opposto dall’imputato all’espletamento dei rilievi fotografici necessari per lo svolgimento della perizia antropometrica costituisce, quando non siano state prospettate al riguardo modalità invasive o comunque lesive dell’integrità e della libertà personale, un elemento di prova valutabile dal giudice ai fini della ricostruzione del fatto»; in precedenza, Sez. 2, n. 36295 del 22/09/2010). Infatti, come aveva già chiarito Sez. 2, Alcamo, cit., la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 224 cod. proc. pen. rende inutilizzabile il risultato di una prova biologica eventualmente conseguita in contrasto con il rispetto della libertà personale dell’imputato, ma, quando il rifiuto verte su mere attività esterne e non può dirsi motivato da ragioni inerenti all’invasione della propria sfera corporale e alla violazione della libertà, di modo che si rivela ingiustificato, allo stesso può essere attribuito un preciso significato probatorio; essendo, infatti, tale rifiuto sorretto solo da argomenti pretestuosi, esso può essere valutato dal giudice come elemento di convincimento. Quel che viene in esame, infatti, non è il legittimo rifiuto opposto al compimento di atti invasivi, che nondimeno possono essere effettuati coattivamente a norma dell’art. 224-bis cod. proc. pen., quanto piuttosto l’ingiustificato rifiuto di fornire, senza alcuna invasione della libertà personale, un campione biologico da utilizzare in una indagine giudiziaria.

Nel caso di specie, quel che risulta incontrovertibile è che fu disposto un accertamento rimesso alla libera volontà del ricorrente; che tale accertamento era volto ad affermare o escludere il collegamento di questi con le tracce biologiche lasciate dall’omicida; che l’accertamento comportava un prelievo di saliva, ossia un’operazione per nulla invasiva, del tutto indolore e possibile senza intervento di estranei sul corpo di GP, ma che questi reiteratamente si rifiutò senza addurre alcuna contestazione sul tipo e sul modo dell’accertamento.

Si può in definitiva affermare che, ferma la possibilità di disporre il prelievo coatto, il rifiuto opposto a una richiesta di accertamento non invasivo e non comportante atti di disposizione della propria sfera corporale, quando non sia motivato da ragioni esplicitate e giustificate, può essere liberamente apprezzato dal giudice nella formazione del suo convincimento; in particolare, il rifiuto può essere utilizzato come elemento di prova della natura non accidentale del contatto, dei tempi e dei modi di rilascio delle tracce biologiche rilevate sulla vittima. Infatti, l’ingiustificato rifiuto di sottoporsi al prelievo non invasivo, unito all’assenza di attendibili e tempestive indicazioni di possibili trasferimenti secondari od occasionali idonei a giustificare la presenza della traccia biologica dell’imputato, consente al giudice di affermare che detta traccia biologica rilevata sul corpo della vittima è dimostrativa dell’azione omicida dell’imputato.