La Cassazione sezione 2 con la sentenza numero 1797/2025 ha esaminato la cosiddetta “truffa dello specchietto”, che avviene spesso nella vita di tanti utenti della strada, ed ha concluso che in determinati casi è una estorsione.
Fatto
La persona offesa ha raccontato che stava guidando la sua autovettura quando con lo specchietto retrovisore notava un uomo -poi identificato in B.- che le faceva segno di fermarsi, così che -in effetti- si fermava sul lato destro della carreggiata.
L’uomo, quindi, le si avvicinava e le faceva notare che lo aveva investito sorpassandolo con la sua autovettura mentre era alla guida del suo scooter.
A dimostrazione dell’evento, le faceva notare dei graffi sull’autovettura e i danni riportati dallo scooter.
Si legge a questo punto nella querela riportata nella sentenza: «il conducente dello scooter le avrebbe detto di essere carrozziere e che sapeva valutare sul posto il danno arrecato al suo mezzo, che ammontava a circa 500 euro.
Inoltre, lo stesso, mostrando un tutore sul braccio sx, riferiva che avrebbe denunciato la B. per lesioni e le avrebbe fatto togliere la patente se quest’ultima avesse avuto l’intenzione di chiamare le forze dell’ordine e non di risolvere direttamente sul posto».
La donna, quindi, intimorita, pagava la somma richiesta.
Così ricostruito il fatto, sulla base di quanto narrato dalla vittima sulla querela integralmente riportata sia nella sentenza di primo grado che in quella d’appello, dove pure si riconosceva che l’incidente era stato simulato dall’agente, i giudici hanno ritenuto che la fattispecie versasse nel paradigma della truffa c.d. vessatoria, perché la minaccia di denunciare la donna per lesioni ovvero di farle ritirare la patente non erano diretta conseguenza dell’agire dell’imputato, necessitando di un successivo accertamento giudiziale quanto alla sussistenza del reato, ovvero di un accertamento amministrativo, quanto al ritiro della patente.
Ricorre la Procura Generale.
Decisione
La Cassazione premette che la giurisprudenza di legittimità ha più volte avuto modo di precisare che integra il reato di estorsione la pretesa azionata in giudizio per scopi eccentrici rispetto a quelli per i quali il diritto è riconosciuto o tutelato, o comunque non dovuti nell’an o nel quantum, onde conseguire un profitto contra ius.
In altri termini, integra gli estremi del reato di estorsione la minaccia di prospettare azioni giudiziarie al fine di ottenere somme di denaro non dovute o manifestamente sproporzionate rispetto a quelle dovute, qualora l’agente ne sia consapevole, potendosi individuare il male ingiusto ai fini dell’integrazione del più grave delitto nella pretestuosità della richiesta (Sez. 2, n. 19680 del 12/4/2022; Sezione 6, n. 47895 del 19/6/2014).
Da ciò discende che il pubblico ministero ricorrente ha fondatamente dedotto che il fatto in esame andava più correttamente qualificato quale estorsione, in quanto B. pretendeva una somma non dovuta, ottenuta dietro la minaccia di un male ingiusto, costituito dalla prospettiva di calunniarla ove non avesse pagato.
Va evidenziato che l’estorsione è aggravata dall’approfittamento della minorata difesa, ai sensi dell’art. 61, comma primo, n. 5, cod. pen..
Tale aggravante, invero, era già stata riconosciuta dal tribunale e l’imputato aveva proposto appello sul punto, con specifico motivo di gravame disatteso dalla Corte di appello.
Tale punto della sentenza di appello non è stato impugnato con ricorso per cassazione, con la conseguenza che la relativa statuizione ha acquisito la forza del giudicato in relazione alla sussistenza di tale aggravante.
Va, dunque, concluso che il fatto contestato all’imputato va riqualificato ai sensi degli artt. 629 e 61, comma primo, n. 5, cod. pen., con conseguente annullamento della sentenza impugnata sul punto.
