La Cassazione sezione 6 con la sentenza 1909/2025 ricorda il discrimine tra l’articolo 318 c.p. (corruzione per l’esercizio della funzione) e l’articolo 319 c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio).
Sul punto, nel caso esaminato, la Corte di appello non si esprime con la necessaria precisione, richiamando alcuni precedenti di legittimità e sembrando dar rilievo decisivo al principio, ivi affermato, per cui la corruzione “propria” non presupponga necessariamente la contrarietà dell’atto dell’agente pubblico alla specifica disciplina normativa di riferimento, quale che ne sia il rango, e dunque potendo assume rilevanza anche la violazione del generale dovere d’imparzialità e correttezza dell’attività amministrativa, di cui all’art. 97, Cost..
In realtà, tale affermazione è stata progressivamente raffinata dalla Suprema Corte nella sua giurisprudenza più recente, secondo la quale, in caso di attività compiuta dall’agente pubblico in cambio di un’indebita remunerazione, ma nell’ambito di uno spazio discrezionale riservatogli dalla normativa e quindi non in contrasto con quest’ultima, il discrimine fra le due fattispecie corruttive vada individuato nella direzione della sua azione.
Più specificamente, l’accettazione di un’indebita remunerazione integra la corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319, cod. pen.) se, in concreto, l’esercizio dell’attività del pubblico funzionario sia stato condizionato dalla “presa in carico” dell’interesse del privato corruttore, comportando una violazione delle norme attinenti a modi, contenuti o tempi dei provvedimenti da assumere e delle decisioni da adottare.
Occorre, cioè, in altri e più semplici termini, accertare se l’atto sia stato posto in essere in violazione delle regole che disciplinano l’esercizio del potere discrezionale e se il pubblico agente, pur muovendosi nei confini di tale potere, abbia pregiudizialmente inteso realizzare l’interesse del privato corruttore; diversamente, qualora non sia stato violato alcun dovere specifico e l’atto compiuto realizzi ugualmente l’interesse pubblico tipizzato dalla norma attributiva del potere, si deve ritenere integrato il reato di cui all’art. 318, cod. pen. (in tema, tra altre: Sez. 6, n. 44142 del 24/05/2023, Di Guardo, Rv. 285366; Sez. 3, n. 23335 del 28/01/2021, Alecci, Rv. 281589; Sez. 6, n. 1594 del 10/11/2020, dep. 2021, Siclari, Rv. 280342; Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555; e, più di recente, Sez. 6, n. 15641 del 19/10/2023, dep. 2024, Saguto, Rv. 286376; Sez. 6, n. 28418 del 16/04/2024, Affinita, non mass.).
Una tale disamina, nella sentenza impugnata, non si rinviene, sicché si rende indispensabile una rivalutazione del compendio probatorio al luce del principio appena enunciato
