La Cassazione sezione 4 con la sentenza numero 1001/2025 ha esaminato il caso di una contestazione di furto all’interno dell’abitazione ad opera di una collaboratrice domestica.
La Suprema Corte ha ricordato che la mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, è insufficiente a configurare la fattispecie contestata, sia in relazione all’abrogato art. 625 c. 1, cod. pen., sia – mutatis mutandis – a quella successivamente introdotta dell’art. 624 bis, cod. pen.
La questione è stata segnalata dal collega Giovanni Tripodi.
Fatto:
La Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza con la quale il Tribunale cittadino aveva condannato C.Z. per il reato di furto in abitazione aggravato ai sensi dell’art. 61 n. 11, cod. pen..
Nel ricostruire la vicenda, quel giudice ha precisato che la persona offesa, aveva sporto denuncia-querela per il patito furto di monili e vari oggetti di valore sottratti dalla sua abitazione, addebitandolo all’imputata.
In particolare, secondo il racconto della persona offesa, costei era stata ricoverata in ospedale da fine luglio a inizio settembre 2020 e, in quel periodo, la propria collaboratrice domestica, odierna imputata, si era recata spesso presso l’abitazione per svolgere il suo lavoro, il relativo rapporto essendo iniziato già l’anno prima.
Dopo le dimissioni dall’ospedale, la donna era stata assistita dall’imputata che aveva libero accesso a ogni stanza dell’abitazione, disponendo anche delle chiavi.
Il maltolto era occultato all’interno di un pianoforte, ove gli oggetti erano stati riposti dalla dichiarante con l’aiuto della C. Z., unica persona a conoscenza del nascondiglio. A seguito di perquisizione, erano stati rinvenuti presso l’imputata alcuni monili, direttamente consegnati dalla donna ai militari, altri preziosi non essendo stati invece recuperati.
La condotta contestata è stata ritenuta aggravata dal rapporto di lavoro con la persona offesa, in virtù del quale l’imputata aveva avuto anche la disponibilità delle chiavi di casa.
La difesa ha proposto ricorso ed ha dedotto vizio di motivazione in ordine all’omessa riqualificazione del fatto da ipotesi di cui all’art. 624 bis, cod. pen. a furto ai sensi dell’art. 624, stesso codice, atteso che la ragione della presenza dell’imputata nell’abitazione della persona offesa era da ricondursi all’espletamento dell’attività lavorativa, l’introduzione essendo avvenuta con il consenso della titolare e non al fine di perpetrare l’azione predatoria.
Decisione:
In ordine alla qualificazione giuridica del fatto addebitato all’imputata, deve intanto premettersi che il Supremo collegio di nomofilachia, nel comporre un contrasto giurisprudenziale sul discrirnine tra le fattispecie di cui agli artt. 624 e 624 bis, cod. pen., ha optato per una interpretazione assai rigorosa della nozione di privata dimora, constatandone una dilatazione ermeneutica da parte della giurisprudenza di legittimità, a tratti stridente con il principio di maggior offensività che deve orientare il giudice nel valutare le connotazioni di maggior severità sanzionatoria rispetto all’ipotesi di furto “base”.
Pertanto, ai fini della configurabilità del più grave reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata e che non siano aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale (Sez. U, n. 31345 del 23/03/2017, D’Amico, Rv. 270076 – 01).
Alla stregua di tale rigorosa lettura, si è dunque escluso che nella nozione rientrino, per esempio, i luoghi di lavoro, salvo che il fatto sia avvenuto all’interno di un’area riservata alla sfera privata della persona offesa, mentre vi rientrano quelli adibiti «in modo apprezzabile sotto il profilo cronologico allo svolgimento di atti della vita privata, non limitati questi ultimi soltanto a quelli della vita familiare e intima (propri dell’abitazione)», nonché i luoghi che, ancorché non destinati allo svolgimento della vita familiare o domestica, abbiano, comunque, le caratteristiche dell’abitazione. Sono stati, così, evidenziati tre elementi necessari ai fini della sussistenza dell’ipotesi di reato in esame:
a) l’utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata (riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere), in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne;
b) la durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità;
c) la non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare (in motivazione Sez. U, D’Amico cit.).
Ora, nella specie, non è in discussione la natura del luogo nel quale il furto è stato consumato, né la relazione tra lo stesso e la persona offesa, bensì la relazione tra il luogo e l’agente, come emerge dallo stesso dato letterale della norma incriminatrice («Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa»). In ciò va colto l’errore in diritto dei giudici territoriali, sul quale la difesa ha posto l’accento.
Infatti, sotto tale, specifico aspetto, la cassazione ha già chiarito, in un caso nel quale l’agente aveva posto in essere la condotta sfruttando la relazione di ospitalità con la vittima, che, ai fini della configurabilità del reato di furto in abitazione, è necessario che sussista il nesso finalistico – e non un mero collegamento occasionale – fra l’ingresso nell’abitazione e l’impossessamento della cosa mobile, in quanto il nuovo testo dell’art. 624 bis cod. pen., novellato dall’art. 2, c. 2, della legge n. 128/2001, pur ampliando l’area della punibilità in riferimento ai luoghi di commissione del reato, non ha innovato quanto alla strumentalità dell’introduzione nell’edificio, quale mezzo per commettere il reato, già preteso dalla previgente normativa di cui all’art. 625, comma 1, n. 1, cod. pen. (in motivazione, Sez. 4, n. 18792 del 28/03/2019, D’Ambrogio, Rv. 276087 – 01, in cui si opera un richiamo anche a Sez. 5, n. 21293 del 01/04/2014, Licordari, Rv. 260226 – 01 e n. 14868 del 15/12/2009 dep. il2010, Franquillo, Rv. 246886 – 01; ma vedi anche Sez. 4, n. 3450 del 20/12/2018, dep. 2019, Badiane, Rv. 275115 – 01, sempre in fattispecie in cui l’agente aveva avuto accesso all’abitazione in quanto ospite del proprietario).
Va quindi ribadito che la mera occasionalità della presenza all’interno del luogo di privata dimora o nelle sue pertinenze, è insufficiente a configurare la fattispecie contestata, sia in relazione all’abrogato art. 625 c. 1, cod. pen., sia – mutatis mutandis – a quella successivamente introdotta dell’art. 624 bis, cod. pen.
Infatti, la dizione «…mediante introduzione in un edificio o in un altro luogo destinato in tutto o in parte a privata dimora o nelle pertinenze di essa», contenuta nel testo attuale, esprime in maniera chiara il rapporto di strumentalità dell’introduzione nell’edificio rispetto all’azione predatoria posta in essere, essendo un mezzo per commettere il reato, non diversamente da quanto era precedentemente espresso nel testo abrogato con le parole «…per commettere il fatto, si introduce o si intrattiene in un edificio .. ».
Del resto, il legislatore, quando ha voluto prescindere dal nesso finalistico, ha agito diversamente, correlando ad esempio le aggravanti di cui all’art. 625 nn. 6 e 7, cod. pen. alla pura e semplice collocazione delle cose sottratte in determinati luoghi, uffici o stabilimenti.
E, infatti, l’esegesi letterale della norma (come affermato in Sez. 5, n. 21293/2014, Licordari, cit., in motivazione) porta anche a rilevare che la nuova disposizione non ha riprodotto la possibilità di configurare la fattispecie anche nel caso in cui l’impossessamento sia realizzato durante l’abusivo trattenimento nell’edificio, previsto invece espressamente dall’art. 625, n. 1, cit.
In quel caso, infatti, la Suprema Corte ritenne correttamente configurabile solo l’aggravante di cui all’art. 61 n. 11, cod. pen.
Viceversa, si avrà furto in abitazione quando l’introduzione nell’abitazione del soggetto passivo avvenga a seguito di consenso di quest’ultimo carpito con l’inganno (Sez. 5, n. 13582 del 02/03/2010, Torre, Rv. 246902 – 01), poiché la fattispecie incriminatrice dettata dall’art. 624 bis richiama indubbiamente la sottostante condotta di violazione di domicilio, sanzionata dall’art. 614, cod. pen., norma che riguarda comportamenti di introduzione nell’altrui dimora, realizzati “con inganno” o “contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo“.
