Resistenza passiva in carcere: per Francesco Petrelli (e non solo lui), “una norma irragionevole” (Riccardo Radi)

Nel DDL Sicurezza si trova l’ennesima perla della maggioranza al governo: la “resistenza passiva” in carcere.

Una norma che, se approvata, andrebbe applicata anche a giganti come Gandhi e Nelson Mandela.

Chi “partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi in tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da 1 a 5 anni“. In tale contesto “costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva“.

Una norma che vale anche per i Cpr.

La norma sulla resistenza passiva cambierà (al peggio non c’è mai fine) il volto del carcere.

Il nuovo reato di rivolta penitenziaria si configura anche in caso di resistenza passiva a un ordine, se una persona non rientra in cella nonostante l’ordine di rientrare o rifiuta di mangiare nonostante l’ordine di mangiare, è resistenza passiva.

Con questa norma si intende silenziare qualsivoglia rivendicazione dei propri diritti all’interno degli istituti penitenziari.

In carcere, spesso non si hanno altri modi di farsi ascoltare che utilizzare azioni non violente (sciopero della fame, battitura delle grate delle celle), con l’introduzione della resistenza passiva si trasformano in reato condotte tipicamente inoffensive.

Come lucidamente spiegato dall’avvocato Francesco Petrelli, intervistato il 14 gennaio 2025 da Il Quotidiano del Sud, “Non è difficile fare esempi: un intero florilegio di diritto penale simbolico e di norme spropositate e irragionevoli. Per dire: l’ipotesi introdotta dall’articolo 26: il reato di rivolta carceraria. Con lo sproposito, mi faccia aggiungere, di trasformare una condotta tipicamente inoffensiva, quale la resistenza passiva posta in essere dai vari soggetti detenuti, condotta storicamente mai ritenuta da norme e giurisprudenza come una ipotesi di condotta illecita, che, al contrario, diventa costitutiva del reato di rivolta. Con il risultato che vengono poste sullo stesso piano le condotte pacifiche di chi si rifiuta di entrare in cella alle condotte violente dei rivoltosi. Con l’ulteriore conseguenza che, dovendo rispondere del medesimo reato, non vi è più ostacolo a porre in essere condotte violente”.

Serve ricordare che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, la resistenza passiva è una condotta lecita.

L’ultima sentenza in argomento è Cassazione penale, Sez. 6, n. 590/2025, la quale ha ricordato che “la resistenza passiva resta fuori dalla condotta integrante reato quando si risolva in una mera disobbedienza o resistenza opposta con una condotta meramente passiva” (a questo link per un approfondimento di TF, a cura di Filippo Bisanti).

In effetti, secondo un pacifico insegnamento della Suprema Corte (Sezione 6, n. 6604/2022, Sez. 6, n. 10136 del 06/11/2012, dep. 2013), non integra il delitto di cui all’art. 337 c.p., la condotta consistente nel mero divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria per sottrarsi al controllo, quando lo stesso si risolva in un atto di mera resistenza passiva, implicante un uso moderato di violenza non diretta contro il pubblico ufficiale o “il rifiutarsi di seguire il pubblico ufficiale può essere equiparato ad una vera e propria condotta oppositiva”.

Con la resistenza passiva in carcere anche il pensiero di Mahatma Gandhi risulterebbe una condotta illecita: “Un no pronunciato con convinzione è molto migliore di un sì pronunciato unicamente per compiacere o, ancora peggio, per evitare problemi”.