Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 25926/2024, udienza del 7 marzo 2024, si è allineata alla giurisprudenza costante di legittimità (Sez. 1, n. 42208 del 21/03/2017; Sez. 1, n. 12426 del 24/10/1994) secondo la quale, in materia di attenuanti generiche, tra gli elementi positivi che possono suggerire la necessità di attenuare la pena, rientra la confessione spontanea, potendo, tuttavia, il giudice di merito escluderne la valenza, quando essa sia contrastata da altri specifici elementi di disvalore, emergenti dagli atti, o si sostanzi nel prendere atto della ineluttabilità probatoria dell’accusa ovvero sia volta, esclusivamente, all’utilitaristica attesa della riduzione della pena e la collaborazione giudiziaria o processuale sia, comunque, probatoriamente inerte o neutra, nel senso che non abbia neppure agevolato il giudizio di responsabilità di coimputati, per essere questi già confessi o per altro plausibile motivo.
Del resto, si è anche affermato che l’esercizio di facoltà processuali e del diritto di difesa dell’imputato non può essere valutato come parametro ai sensi dell’art. 133, cod. pen., per negare le circostanze attenuanti generiche (così, tra tante, Sez. 3, n. 3396 del 23/11/2016, dep. 2017).
Principio affermato anche con riferimento alla sospensione condizionale della pena, la quale, si è detto, non può – parimenti – essere negata solo perché l’imputato nega ostinatamente l’addebito e sostenga una versione dei fatti, smentita dalle altre risultanze istruttorie, in quanto espressione di un insopprimibile diritto di difesa, riflesso del diritto al silenzio (Sez. 5, n. 17232 del 17/01/2020, conf. n. 4459/1989).
Se è vero, infatti, che ai sensi dell’art. 133, comma secondo, nn. 1) e 3), cod. pen., il giudice, in relazione alla concessione o al diniego delle circostanze attenuanti generiche come – in caso affermativo – alla misura della riduzione d pena, deve tenere conto anche della condotta serbata dall’imputato successivamente alla commissione del reato e nel corso del processo, in quanto rivelatrice della sua personalità e, quindi, della sua capacità a delinquere (Sez. 3 n. 27964 del 19/03/2019, conf. Sez. 6, n. 17240 del 1989) è altrettanto vero che però ciò non implica che possano assumere rilievo quei comportamenti, strettamente ricollegabili all’esercizio del diritto di difesa e alle facoltà processuali, che, in quanto tali, non possono essere ritenuti esplicativi della personalità e della capacità a delinquere.
Fermo restando che, come precisato dalle Sezioni unite penali, il pieno esercizio del diritto di difesa, se attribuisce all’imputato il diritto al silenzio e persino alla menzogna, non lo autorizza, per ciò solo, a tenere comportamenti processualmente obliqui e fuorvianti, in violazione del fondamentale principio di lealtà processuale che deve comunque improntare la condotta di tutti i soggetti del procedimento, e la cui violazione è indubbiamente valutabile da parte del giudice di merito (nel caso esaminato dalla Corte – Sez. U, n. 36258 del 24/05/2012 – ai fini del riconoscimento o meno delle circostanze attenuanti generiche).
Il silenzio serbato dall’imputato non può, pertanto, in alcun modo essere ritenuto condotta successiva, indicativa di capacità a delinquere 133, comma secondo, cod. pen., potendosi al più, come affermato dalle Sezioni unite, darsi rilievo ad un atteggiamento del tutto scorretto e sleale, nel quale non potrebbe giammai identificarsi il mero silenzio, costituente una delle modalità tipiche di estrinsecazione del diritto di difesa.
In tema di circostanze attenuanti generiche, mentre la confessione, dell’imputato, tanto più se spontanea e indicativa di uno stato di resipiscenza, può, quindi, essere valutata come elemento favorevole, ai fini della concessione, del predetto beneficio, per contro la protesta d’innocenza – o, si aggiunge, la scelta di non parlare né collaborare in qualche modo con l’autorità giudiziaria – pur di fronte all’evidenza delle prove di colpevolezza, non possono essere
assunte, da sole, come elemento decisivo sfavorevole alla concessione stessa, non esistendo nel vigente ordinamento, un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all’imputato che non confessi di aver commesso il fatto o non collabori con l’autorità giudiziaria, quale che sia l’efficacia delle prove di reità (cfr. Sez. 3, n. 50565 del 29/10/2015).
Quindi, in tema di circostanze attenuanti generiche, non possono essere valutate, come elemento ostativo al riconoscimento delle stesse, le scelte dell’imputato strettamente connesse all’esercizio delle proprie attività difensive; tuttavia, per converso, va verificata l’incidenza dei suoi comportamenti, eventualmente anche di natura processuale, estranei a tale ambito (Sez. 4, n. 5594 del 04/10/2022, dep. 2023).
