Magistrato di sorveglianza ritiene che la richiesta di un detenuto di avere un colloquio intimo con la compagna sia una mera aspettativa, interviene la Cassazione e ricorda che è un diritto.
La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 8/2025 ha stabilito che non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per «ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina», ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato.
Fatto:
Con ordinanza emessa in data 05 settembre 2024 l’Ufficio di sorveglianza di Torino ha dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da A.S. contro il provvedimento con cui la casa di reclusione di Asti gli ha negato un colloquio in intimità con la propria moglie, con la motivazione che la struttura non lo consente.
Secondo il giudice la richiesta del detenuto non configura un vero e proprio diritto, ma una mera aspettativa, non tutelabile in via giurisdizionale.
Decisione:
La Suprema Corte premette che non vi sono dubbi circa la proponibilità del ricorso in cassazione avverso il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza.
L’impugnazione proposta dal detenuto deve essere qualificata come un reclamo giurisdizionale, ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen., dal momento che egli ha impugnato il diniego opposto dall’istituto penitenziario alla sua richiesta di poter esercitare un diritto, correttamente rivolgendosi al magistrato di sorveglianza, stante la sua competenza stabilita dall’art. 69, comma 6, lett. b), Ord. pen.
Il giudice adito ha dichiarato il reclamo inammissibile, adottando la procedura consentita dall’art. 666, comma 2, cod. proc. pen., e avverso il suo provvedimento la norma stessa stabilisce la ricorribilità in cassazione.
La declaratoria di inammissibilità è stata motivata dal fatto che la richiesta del detenuto rappresenterebbe una mera «aspettativa» e non un diritto, per cui lo stesso strumento del reclamo giurisdizionale da lui adottato sarebbe errato.
La valutazione del magistrato di sorveglianza, però, non è corretta.
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 10 emessa il 26 gennaio 2024, ha stabilito l’illegittimità dell’art. 18 Ord. pen. «nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa … a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia».
I giudici, infatti, hanno ritenuto, peraltro riprendendo valutazioni già esposte nella precedente sentenza n. 301/2012 di esito contrario, che la libertà di godimento delle relazioni affettive costituisce un diritto costituzionalmente tutelato, diritto che lo stato di detenzione può comprimere quanto alle modalità di esercizio, ma non può totalmente annullare, con una previsione astratta e generalizzata, che non tenga conto delle condizioni individuali del detenuto e delle sue prospettive di risocializzazione, in quanto ciò si tradurrebbe in una lesione della dignità della persona.
L’obbligo di controllo visivo del personale di custodia durante i colloqui del detenuto, previsto come assoluto e inderogabile, è stato ritenuto costituire una compressione sproporzionata e irragionevole della dignità del detenuto e della libertà della persona a questi legata da una stabile relazione affettiva, che risulta limitata, anche per anni, a coltivare detta relazione, pur essendo estranea al reato e alla condanna.
La Consulta ha pertanto concluso che l’impossibilità, per il detenuto, di esprimere una normale affettività con il partner si traduce in un vulnus dei suoi rapporti familiari e in un pregiudizio nelle relazioni nelle quali si svolge la sua personalità, che, se non giustificato da ragioni di sicurezza o di mantenimento dell’ordine e della disciplina, ovvero dalla pericolosità sociale del detenuto o da ragioni giudiziarie per l’imputato, viola gli artt. 27 Cost. e 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU.
Alla luce delle esplicite valutazioni contenute in questa pronuncia, non può ritenersi che la richiesta di poter svolgere colloqui con la propria moglie in condizioni di intimità, avanzata dal detenuto ricorrente, costituisca una mera aspettativa, essendo stato affermato che tali colloqui costituiscono una legittima espressione del diritto all’affettività e alla coltivazione dei rapporti familiari, e possono essere negati, secondo l’esplicito dettato della sentenza citata, solo per «ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina», ovvero per il comportamento non corretto dello stesso detenuto o per ragioni giudiziarie, in caso di soggetto ancora imputato.
Il reclamo proposto dal detenuto ricorrente, pertanto, non doveva essere dichiarato inammissibile ma, essendo relativo all’esercizio di un diritto che il detenuto riteneva illegittimamente pregiudicato dal comportamento dell’istituto penitenziario di appartenenza, doveva essere valutato dal magistrato di sorveglianza ai sensi dell’art. 35-bis Ord. pen.
Il provvedimento impugnato, pertanto, deve essere annullato, con rinvio al magistrato di sorveglianza di Torino, perché provveda sul reclamo proposto
