La Cassazione sezione 3 con la sentenza numero 289 del 3 gennaio 2025 ha stabilito che ai fini della configurazione dell’appropriazione indebita nei confronti di beni fungibili e, dunque del denaro, è essenziale che alla disponibilità del bene si accompagni l’accertamento di un vincolo di destinazione che deve accompagnare la detenzione dal momento del conferimento del bene, non essendo possibile interpretare come vincolo di destinazione originario un obbligo di natura civilistica assunto con la stipula di un contratto: ne consegue che l’appropriazione indebita di un bene fungibile si configura solo nei casi in cui il bene sia ab origine conferito dal proprietario con un vincolo di destinazione, che viene violato dal depositario.
La Suprema Corte ha richiamato il precedente della cassazione sezione 2 numero 49463/2018 che aveva indicato che ‘appropriazione indebita o il peculato di un bene fungibile possono configurarsi soltanto quando il bene sia “ab origine” conferito dal proprietario con un vincolo di destinazione che venga poi violato dal depositario, vincolo che non può essere identificato con un mero obbligo di natura civilistica assunto con la stipula di un contratto.
Fattispecie nella quale la Cassazione ha escluso la sussistenza del delitto di peculato in capo all’amministratore di una casa da gioco che, in violazione della convenzione stipulata con il Comune, non aveva versato all’ente territoriale la quota prestabilita degli incassi periodici.
In materia di valutazione dei confini di applicabilità di appropriazione indebita nei casi in cui il bene di cui abbia la disponibilità sia fungibile ribadisce che la regola dell’acquisizione per confusione del denaro e delle cose fungibili nel patrimonio di colui che le riceve non opera ai fini della nozione di altruità accolta nell’art. 646 cod. pen.
Tuttavia non potrà, pertanto, ritenersi responsabile di appropriazione indebita colui che non adempia obbligazioni pecuniarie cui avrebbe dovuto far fronte con quote del proprio patrimonio non conferite e vincolate a tale scopo (Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011 – dep. 3 20/10/2011, Orlando; Sez. 2, n. 26774 del 09/04/2010 – dep. 12/07/2010).
In ossequio a tale orientamento si è affermato, per esempio, che commette il delitto di appropriazione indebita il mandatario che, violando le disposizioni impartitegli dal mandante, si appropri del denaro ricevuto utilizzandolo per propri fini e, quindi, per scopi diversi ed estranei agli interessi del mandante (Sez. 2, n. 46256 del 17/10/2013 – dep. 19/11/2013).
Approfondendo la ratio delle scelte ermeneutiche richiamate emerge che gli istituti civilistici che definiscono la proprietà non sono immediatamente trasferibili nel penale, dato che sono ipotizzabili “interversioni del possesso” anche di beni che secondo i princìpi civilististi (e segnatamente in ossequio ai principi che governano l’istituto del deposito irregolare, ovvero l’art. 1782 cod. civ.) sarebbero di “proprietà” del detentore.
Le Sezioni unite in materia di appropriazione indebita (ma le conclusioni valgono anche per il peculato in esame) hanno chiarito che la soluzione adottata per individuare e circoscrivere il canone dell’altruità della res fungibile, che costituisce il presupposto del reato di indebita appropriazione ad opera di chi di tale cosa ha il possesso o la detenzione qualificata, non s’ispira affatto pedissequamente agli schemi del diritto civile ed appare anzi espressione della condivisa necessità di trarre soluzioni interpretative dai dati positivi normativi e sistematici, privilegiando un approccio esegetico-sperimentale piuttosto che rigide posizioni dommatiche.
Di principio, quando la fattispecie penale utilizza per la designazione di un fatto, o di un istituto, un termine che ha in altro ramo del diritto una propria configurazione tecnica, dovrebbe presumersi che anche il diritto penale lo assuma con analogo significato, giacché il diritto richiede certezze e riconoscibilità, e dunque l’uso di elementi normativi deve conformarsi quanto più possibile ai canoni della determinatezza e tassatività.
Per accogliere ai fini penali una diversa accezione del termine, occorre trovare nella stessa legge penale una ragione, ovverosia quella che autorevole dottrina definisce “una giustificazione conveniente“, per “segni certi”, della diversa accezione.
Tali segni, o indicatori, vanno ricercati, secondo le regole generali sull’interpretazione delle leggi, oltre che nella formulazione della disposizione, nel confronto con altre disposizioni e nella funzione della norma: sulla base, in altri termini, delle “finalità perseguite dall’incriminazione e del più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca”, come costantemente ricorda il Giudice delle leggi segnalando la necessità di verificare il rispetto del principio di determinatezza mediante il ricorso al criterio, altresì, dell’offesa (tra molte: Corte cost., sentenze n. 327 del 2008, n. 5 del 2004, n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004).
Non importa, quindi, il numero dei parametri utilizzati, ma il livello di certezza, e quindi di riconoscibilità, che essi sono in grado di conferire, oggettivamente e senza contraddizioni, all’individuazione di un significato in tutto o in parte diverso rispetto a quello adottato nel diverso ramo del diritto.
Non può negarsi, all’inverso, che alcuni termini che hanno uno specifico significato tecnico-giuridico in altra branca del diritto, siano impiegati nella legge penale attribuendo loro un significato tratto dal linguaggio comune, fatto proprio e utilizzato dalla norma penale ai propri fini.
Esempi di questa duplicità di accezioni sono per l’appunto tradizionalmente individuati nell’uso, nelle fattispecie penali, delle locuzioni di possesso e detenzione, di altruità e proprietà, per le quali è opinione risalente e consolidata che esse non designano l’esatto equivalente degli omonimi concetti propri del diritto civile.
Pure una stabile tradizione interpretativa, esercitata nel rispetto del principio di legalità, può d’altra parte confluire a conformare le norme assicurando al sistema sanzionatorio quel livello di prevedibilità che […] costituisce garanzia sia per i destinatari dei precetti sia per l’ordinamento obiettivo: anche l’effetto di prevenzione generale degli illeciti presupponendo che il testo normativo sia uniformemente interpretato e reso così riconoscibile dai consociati» (§§ 11 e 12 Sez. U, n. 37954 del 25/05/2011 – dep. 20/10/2011, Orlando).
Proseguono le Sezioni unite affermando che «il legislatore non ha inteso utilizzare la nozione di altruità nel senso, strettamente civilistico, di proprietà distinguibile dalla disponibilità. Per il diritto civile la proprietà delle cose fungibili si trasferisce, per specificazione e separazione, con il trasferimento del possesso, e il denaro è perciò destinato a confondersi con il patrimonio di chi lo possiede, né in relazione ad esso sono configurabili diritti reali di terzi.
Anche nel caso che taluno abbia ricevuto da altri una somma, per custodirla o per impiegarla in un certo modo, incombe sull’accipiente soltanto l’obbligo di rendere o di impiegare l’equivalente, a scadenza, secondo pattuizione, non il divieto di farne, nel frattempo, uso. Il riferimento, nell’art. 646 cod. pen., al possessore di denaro altrui, è invece indice certo che per il diritto penale la regola della indistinguibilità tra disponibilità e proprietà di cose fungibili non può valere indiscriminatamente”.
Nella valutazione delle Sezioni unite il reato di appropriazione indebita (come si è detto le conclusioni in materia di definizione dell’altruità possono essere riferite anche al peculato) «guarda invece, e sanziona, proprio la rottura unilaterale delle relazioni di subordinazione o derivazione, secondo diritto, tra poteri di fatto e titolo legittimo per l’esercizio di essi poteri sulle cose.
Ciò comporta, tuttavia, che, ferma l’autonomia dell’accezione con la quale le nozioni di “possesso” o bene “altrui” sono usate nella fattispecie in esame, la individuazione delle situazioni che realizzano una rottura degli schemi delle relazioni legali tra titolo e potere esercitato, tanto grave per l’ordine economico da essere punibile a titolo di appropriazione indebita, non può prescindere dal considerare la relazione violata» (§ 12.4. Sez. U, n. 37954 5 del 25/05/2011 – dep. 20/10/2011, Orlando), ovvero la natura dei rapporti patrimoniali intercorrenti tra le parti.
Si è chiarito tuttavia che tale l’ampliamento della nozione di “altruità“, non consente di ricondurre ad essa qualsivoglia diritto di credito, fosse anche liquido ed esigibile.
Impedisce, al contrario, di considerare costitutiva di appropriazione indebita ogni condotta di inadempimento di un’obbligazione che veda come prestazione o controprestazione, seppure “vincolata“, la dazione a un terzo di una somma di denaro, se non altro il fatto che l’inadempimento di una mera obbligazione è già sanzionata penalmente e più lievemente dall’art. 641 cod. pen., ma esclusivamente nell’ipotesi in cui essa sia stata assunta, ab origine, con il proposito di eluderla e dissimulando lo stato d’insolvenza.
La Cassazione conclude affermando che «se denaro o cosa facevano parte del patrimonio dell’inadempiente quando ha assunto l’obbligo di impiegarli o destinarli a favore di un terzo, egli sarà senz’altro responsabile con l’intero suo patrimonio per l’inadempimento, ma non potrà essere sottoposto ad azione di rivendicazione né potrà imputarglisi alcuna interversione del possesso o condotta appropriativa.
Se l’inadempiente ha invece ricevuto il denaro o la cosa per impiegarli o destinarli nell’interesse del terzo, la sua condotta di apprensione (impropriazione) e sottrazione (espropriazione) del bene alla destinazione in vista della quale ne aveva acquisito la disponibilità, costituirà, che abbia o non abbia ad oggetto un bene infungibile suscettibile di rivendicazione, appropriazione indebita rilevante ai sensi dell’art. 646 cod. pen.» (delle citate Sezioni unite).
In linea con tale interpretazione si è ad esempio stabilito che non integra il delitto di appropriazione indebita, risolvendosi un mero inadempimento civilistico, la corresponsione della retribuzione ai dipendenti in misura inferiore a quella risultante dalla busta paga, perché la differenza di denaro che il datore di lavoro trattiene per sè non costituisce parte del patrimonio dei dipendenti (Sez. 2, n. 20851 del 21/04/2009 – dep. 18/05/2009, Celona e altri, Rv. 244806).
Dalla giurisprudenza richiamata emerge che ai fini della configurazione dell’appropriazione indebita nei confronti di beni fungibili e, dunque del denaro, è essenziale che alla “disponibilità” del bene si accompagni l’accertamento di un vincolo di destinazione che deve “accompagnare” la detenzione dal momento del conferimento del bene, non essendo possibile interpretare come “vincolo di destinazione originario” un obbligo di natura civilistica assunto con la stipula di un contratto (nel caso di specie la convenzione regolatrice dei rapporti tra Enti.
In sintesi: la appropriazione indebita, o il peculato di un bene fungibile possono essere configurati solo nei casi in cui il bene sia ab origine conferito dal proprietario con un vincolo di destinazione, che viene violato dal depositario nonostante lo stesso in ossequio ai principi civilistici (ovvero ai sensi dell’art. 1782 cod. civ.), sia “proprietario” a tutti gli effetti del bene fungibile.
