Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 40172/2024, udienza del 17 settembre 2024, ha chiarito che l’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., nel nuovo assetto impresso dalla sentenza n. 111/2023 della Consulta, prevede, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, che all’imputato sia dato avviso della facoltà di non rispondere su ogni domanda diversa da quelle sulle generalità, fermo restando che l’ammonimento dell’obbligo di dire la verità è riferito solamente alle domande necessarie alla sua identificazione; non vi è per contro alcuna previsione di legge che imponga al giudice di ammonire e dare avviso all’imputato dell’obbligo di dire la verità non solo sulle generalità e quant’altro valga ad identificarlo (come previsto dall’art. 66, comma 1, richiamato dall’art. 64, co. 3, lett. b), cod. proc. pen., ma anche rispetto alle domande sulle altre qualità personali, che al pari delle prime rientrano nell’ambito di applicazione delle fattispecie penali di cui agli artt. 495 e 496, cod. pen.
Con la sentenza n.111 del 2023 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede – secondo l’interpretazione consolidata costituente diritto vivente – che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all’imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all’art. 21 delle norme di attuazione del codice di procedura penale. Ed è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 495, primo comma, del Codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell’imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell’art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., abbiano reso false dichiarazioni.
È stato osservato dalla Corte costituzionale che le norme internazionali che tutelano i diritti umani consentono che si possa imporre ad una persona sc spettata di aver commesso un reato il dovere di indicare all’autorità che procede le proprie generalità (nome, cognome, luogo e data di nascita), ma non anche il dovere di fornire ulteriori informazioni di carattere personale, non essendovi per l’indagato o l’imputato alcun obbligo di collaborare con le indagini e il processo a proprio carico.
Per garantire una tutela effettiva a questo diritto, è stato perciò ritenuto necessario fornire all’indagato e all’imputato un esplicito avvertimento della facoltà di non rispondere anche a queste domande ed è stato altresì necessario escludere la sua punibilità nel caso in cui egli risponda il falso, quando non sia stato debitamente avvertito di questa sua facoltà.
Il problema che si pone non è solo quello di stabilire se l’avviso sia stato dato prima o dopo li risposte fornite sulle qualità personali diverse dalle generalità, ma se il contenuto dell’avviso sia stato dato in modo conforme al quadro normativo che si è venuto a configurare dopo l’intervento della Corte costituzionale.
A tale riguardo va innanzitutto precisato che la richiamata sentenza 111/2023 non ha inciso sull’ambito di applicazione dell’obbligo di dire la verità in relazione alle fattispecie di reato previste dagli artt. 495 e 496, cod. pen.
Dette norme incriminano tuttora, anche dopo l’intervento della Consulta, le risposte mendaci rese sulle proprie qualità personali e, quindi, non solo quelle rese sulle proprie generalità. La Corte costituzionale si è limitata a stabilire che l’art. 495 cod. pen. che si riferisce più specificamente alle dichiarazioni mendaci rese dall’imputato o dall’indagato all’autorità giudiziaria è incostituzionale nella parte in cui non prevede l’esonero da responsabilità di chi abbia reso false dichiarazioni sulle proprie qualità personali se tali dichiarazioni non siano state precedute daII’avviso della facoltà di non rispondere, ma nulla ha stabilito con riguardo all’ammonimento dell’obbligo di dire la verità.
Va prima di tutto chiarito a tale proposito che è infondato l’assunto difensivo secondo cui l’obbligo di dire la verità riguarderebbe unicamente le generalità e quanto serve all’identificazione, atteso che l’obbligo di non mentire investe anche le domande che riguardano le altre qualità personali diverse dalle generalità, essendo chiaro il tenore della previsione penale dell’art. 495, cod. pen., che punisce “la falsa dichiarazione sulla propria identità, sul proprio stato o sulle proprie qualità personali” come anche quella dell’art. 496. cod. pen., che fa espresso riferimento alle mendaci dichiarazioni oltre che sull’identità, “sullo stato o su altra qualità personali”.
L’aspetto problematico è quello che riguarda il contenuto dell’avviso che deve essere dato all’imputato atteso che la Consulta ha esteso l’obbligo dell’avviso della facoltà di non rispondere, ma non ha modificato il contenuto dell’avviso di cui all’art. 64, comma 3, lett. b), cod. proc. pen. che richiama a tale fine l’art. 66, comma 1, stesso codice.
Tale ultima norma fa riferimento esclusivamente alle domande che vertono sulle generalità e su quant’altro può valere all’identificazione dell’imputato, prevedendo che l’autorità giudiziaria ammonisca l’imputato “circa le conseguenze cui si espone chi si rifiuta di dare le proprie generalità o le dà false”.
La norma dell’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., dopo la pronuncia della Consulta, prevede a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese, che all’imputato sia dato avviso della facoltà di non rispondere su ogni domanda diversa da quelle sulle generalità, fermo restando che l’ammonimento dell’obbligo di dire la verità è riferito solamente alle domande necessarie alla sua identificazione.
Non vi è alcuna previsione di legge che imponga al giudice di ammonire e dare avviso all’imputato dell’obbligo di dire la verità non solo sulle generalità e quant’altro valga ad identificarlo (come previsto dall’art. 66, comma 1, richiamato dall’art. 64, co. 3, lett. b), cod. proc. pen., ma anche rispetto alle domande sulle altre qualità personali, che al pari delle prime rientrano nell’ambito di applicazione delle fattispecie penali di cui agli artt. 495 e 496 cod.pen.
Il mancato ammonimento sulle conseguenze penali derivanti dall’obbligo di dire la verità sulle proprie qualità personali diverse dalle generalità non assume dunque rilevanza sotto il profilo della dedotta inutilizzabilità, in quanto non previsto dall’art. 64, comma 3, cod. proc. pen., che fa esclusivo riferimento – tramite il richiamo all’art. 66, comma 1, cod. proc. pen. – alle sole domande sulle generalità e su quant’altro serve all’identificazione dell’imputato.
Né si può ritenere che la citata sentenza n.111 abbia modificato l’art. 66, comma 1, cod. proc. pen., che non è stato toccato dalla pronuncia di illegittimità, avendo la sentenza limitato I proprio intervento alla sola necessità che l’avviso della facoltà di non rispondere andasse esteso anche alle domande sulle qualità personali diverse da quelle sulle generalità e, più in generale, da quelle che servono all’identificazione dell’imputato.
In altri termini, la Corte è intervenuta unicamente sul fronte della salvaguardia della garanzia costituzionale del diritto al silenzio per estenderla anche alle domande di cui all’art. 21 disp. att. cod. proc. pen. att. verso la formulazione di un previo avvertimento alla persona sottoposta alle indagini o imputata della facoltà di non rispondere anche a tali domande, ma nulla ha statuito o innovato in ordine al diritto di mentire che si riconosce all’imputato per difendersi dalle accuse mosse nei suoi confronti, espressamente lasciando libero il legislatore di valutare se estendere la non punibilità anche all’ipote3i in cui l’interessato, avendo ricevuto l’avvertimento, renda comunque dichiarazioni false allo scopo di evitare conseguenze a sé pregiudizievoli nell’ambito del procedimento e poi del processo penale”.
In conclusione, nessuna causa di inutilizzabilità è, quindi, prevista per l’imputato che avvisato della facoltà di non rispondere menta sulle proprie qualità personali diverse dalle proprie generalità, anche quando non sia stato espressamente ammonito dell’obbligo di dire la verità, essendo tal monito previsto dall’art. 66, comma 1, cod. proc. pen. solamente per le dichiarazioni sulle proprie generalità.
L’assenza di una previsione espressa di legge che imponga a pena di inutilizzabilità di ammonire l’imputato sulle conseguenze penali derivanti dalle mendaci dichiarazioni rese sulle qualità personali diverse dalle generalità, ovviamente non impedisce che tale avviso sia comunque dato per evitare equivoci che, ove dimostrati, potrebbero assumere rilevanza sotto il diverso piano dell’accertamento del dolo e della scusabilità dell’errore di diritto, non oggetto di censure specifiche.
