Segreto professionale: non possono opporlo l’indagato e l’imputato (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 36775/2024, udienza del 4 luglio 2024, ha affermato che, in tema di prove, il segreto professionale può essere opposto solo dal testimone e non anche dall’indagato o dall’imputato, per i quali è opponibile al magistrato penale il solo segreto di Stato (in termini n. 3288 del 1990).

È anche significativa, per la stretta pertinenza al tema in esame, Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 34020/2020, udienza del 29 ottobre 2020.

Vi si afferma che nel nostro sistema impositivo l’accesso fiscale rappresenta uno dei mezzi istruttori più importanti ed efficaci in cui si estrinseca l’attività di indagine dell’G.D.F. nel procedimento di accertamento.

Il potere di accesso consiste “nell’ingresso e nella permanenza coattiva” nei luoghi ove è esercitata l’attività di impresa, artistica, agricola o professionale, infatti, possono essere reperiti durante la relativa indagine degli elementi “fondamentali”, da parte dei soggetti deputati al controllo delle norme tributarie e rappresenta indubbiamente il mezzo di indagine più “invasivo” di cui dispone l’Amministrazione finanziaria nell’espletamento della propria attività d’istituto nei confronti del cittadino-contribuente.

Al riguardo, occorre precisare che l’accesso può essere effettuato nei locali adibiti “anche” ad abitazione privata, ma occorre, in tal caso, la previa autorizzazione da parte del procuratore della Repubblica.

Sotto il profilo amministrativo, l’accesso viene considerato un atto endoprocedimentale adottato esclusivamente “sulla base di effettive esigenze di indagine” le cui operazioni devono essere contenute in un processo verbale redatto a tal uopo ed è finalizzato all’esecuzione di “ispezioni”, “verifiche” nonché di “ricerche” di qualsiasi elemento o documentazione strumentali all’accertamento ovvero alla repressione delle violazioni tributarie. Le principali norme di riferimento in materia sono rappresentate dall’art. 35 della L. 4/1929 in generale, nonché dall’art. 52 del D.P.R. 633/72 richiamato dall’art. 33 del D.P.R. 600/73.

A seguito dell’entrata in vigore dell’art. 18 della L. 413/1991, che ha modificato l’art. 52 sopra citato, l’unica differenza dell’accesso nei locali destinati all’esercizio di arti o professioni rispetto all’accesso presso le aziende consta nella “necessaria presenza del titolare dello studio o di un suo delegato“. Sul punto, come ribadito anche da una circolare della Guardia di Finanza (circolare 29 dicembre n. 1 del 2008), è pacifico che qualora all’atto dell’accesso presso lo studio professionale, il titolare sia assente per qualsiasi ragione ed in mancanza di un suo delegato, “i verificatori non possono intervenire d’autorità, né richiedere l’assistenza di terzi; ne consegue che il soggetto eventualmente presente nello studio è pienamente legittimato ad opporsi sia all’accesso stesso sia alla richiesta di esibizione delle scritture contabili”.

Per i professionisti appartenenti a determinati ordini professionali (quali avvocati, dottori commercialisti, consulenti del lavoro, notai) è prevista la rigorosa osservanza del segreto professionale ed il massimo riserbo sui fatti e sulle circostanze apprese nello svolgimento della propria attività professionale.

La violazione del segreto professionale costituire illecito disciplinare, ma la sua tutela è assicurata soprattutto dalla legge penale (art. 622 c.p.).

La ratio della norma si rinviene nell’esigenza di salvaguardia dei rapporti intimi professionali determinati da necessità o quasi necessità, nonché nell’interesse pubblico a che il professionista preservi la segretezza dei fatti di cui venga a conoscenza nell’esercizio del ruolo ricoperto, in tal modo garantendo la tutela della libertà e della sicurezza dei rapporti professionali.

Inoltre, dette categorie, ai sensi dell’art. 200 c.p.p., non possono essere obbligate a deporre nei processi penali su quanto appreso e conosciuto per ragione della propria professione; non sono altresì obbligate, ai sensi dell’art. 256, c.p.p., a consegnare all’Autorità Giudiziaria atti, documenti e/o ogni altra cosa, da quest’ultima richiesti, se dichiarano, per iscritto, che sono coperti dal segreto professionale; hanno altresì la facoltà, ai sensi dell’art. 2469 c.c., di astenersi dal testimoniare nei processi civili.

Alla luce di quanto sopra, il segreto professionale si configura come un diritto-dovere che resiste anche di fronte all’esercizio dei poteri istruttori delle Autorità.

Nell’ordinamento tributario, il segreto professionale è previsto dall’art. 52, comma 3 del D.P.R. 633/1972, secondo cui è “necessaria l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica o dell’autorità giudiziaria più vicina (…) per l’esame di documenti e la richiesta di notizie relativamente ai quali è eccepito il segreto professionale ferma restando la norma di cui all’articolo 103 del codice di procedura penale”.

In base all’art. 52 comma 1 del D.P.R. 633/1972 è consentito l’accesso degli ispettori dell’Amministrazione Finanziaria, al fine di effettuare indagini fiscali, anche presso gli studi professionali e non solo presso i locali destinati all’esercizio di attività industriali, commerciali e agricole. L’accesso nei locali adibiti all’esercizio di arti e professioni (previa esibizione del foglio di servizio/ordine d’accesso, sottoscritto dal capo dell’ufficio da cui dipendono e nel caso in cui lo studio sia adibito anche ad abitazione privata, previa autorizzazione rilasciata dal Procuratore della Repubblica) deve essere obbligatoriamente eseguito in presenza del titolare dello studio o, in caso di sua assenza, di un suo delegato (per iscritto), in modo tale che venga assicurata la concreta tutela ed opposizione (se del caso) del segreto professionale (art. 52, primo comma, D.P.R. n. 633/72). Vengono esclusi dalla copertura del segreto professionale i seguenti documenti: gli atti pubblici – i quali, proprio perché tali, non sono coperti dal segreto; le scritture contabili – sia quelle del professionista che quelle del cliente, trattandosi di atti che la legge impone di redigere anche al fine di documentare e rendere accessibili al fisco i fatti che attengono all’attività economica esercitata dai contribuenti e le cui annotazioni, comunque, nulla rivelano in ordine ai contenuti dell’attività professionale prestata; le fatture e le ricevute fiscali emesse dal professionista – in quanto, trattandosi di documenti che, per legge, devono essere conservati proprio in vista di un possibile controllo fiscale, appare irragionevole ritenere che possano essere sottratti all’ispezione anche attraverso l’eccezione del segreto professionale.

Da ricordare che il segreto professionale riguarda esclusivamente notizie e documenti che attengono all’esercizio dell’attività professionale, in stretta connessione con la natura dell’attività stessa del professionista, di cui quest’ultimo ha necessità per il corretto espletamento del proprio lavoro oppure essendo condizione essenziale per lo svolgimento della professione. Non tutti i documenti e notizie di cui il professionista sia in possesso o venga a conoscenza in occasione dello svolgimento dell’attività professionale, pur concernenti il cliente, hanno carattere “segreto”.

L’art. 52, comma 3 del D.P.R. 633/1972 richiede, quindi, che, nel caso di opposizione del segreto professionale, l’Amministrazione Finanziaria, per poter procedere all’esame dei documenti o alla richiesta di notizie, deve ottenere preventiva autorizzazione da parte del Procuratore della Repubblica o dell’Autorità Giudiziaria più vicina. In mancanza di una precisa disposizione al riguardo ed alla luce del disposto degli artt. 70 del D.P.R. 600/1973 e 75 D.P.R. del 633/1972, secondo cui “per quanto non è diversamente disposto dal presente decreto si applicano, in materia di accertamento delle violazioni e di sanzioni, le norme del codice penale e del codice di procedura penale …”, la normativa da applicabile è quella del codice di rito penale.

Il codice di procedura penale infatti prevede che sia il magistrato a disporre gli “accertamenti necessari”, ai soli fini di poter accertare l’esistenza o meno del segreto professionale opposto. L’autorizzazione del magistrato dovrà assumere la forma scritta e dovrà essere motivata in modo esauriente in ordine alla fondatezza dell’eccezione. In relazione all’impugnabilità dell’autorizzazione, la Suprema Corte, con la sentenza n. 11082/2010, ha dichiarato che l’autorizzazione ex art. 52, comma 3 del D.P.R. 633/1972 non è atto impugnabile direttamente avanti il giudice amministrativo, ma solo indirettamente, attraverso l’impugnazione del successivo avviso di accertamento, avanti al giudice tributario.

Qualora, invece, l’attività di accertamento non dovesse sfociare in un atto impositivo ovvero qualora tale provvedimento non dovesse essere impugnato, l’autorizzazione in questione (in quanto lesiva del diritto soggettivo del contribuente di non subire verifiche fiscali fuori dai casi previsti dalla legge) sarà autonomamente impugnabile dinanzi al giudice ordinario (Cass. Civ., Sez. Un., n. 8587/2016). Come si evince quindi dalla disposizione normativa, nel caso in cui il professionista, nel corso dello svolgimento dell’attività accertativa presso il suo studio, non consenta l’accesso a determinati documenti “eccependo” in ordine agli stessi il segreto professionale, i verificatori non avranno altra alternativa che sospendere l’attività di verifica e richiedere la menzionata autorizzazione. Infatti, solo qualora la chiesta autorizzazione sia concessa da parte del magistrato, gli organi verificatori potranno riprendere l’attività di verifica finalizzata alla conseguente legittima acquisizione dei documenti per i quali in un primo momento era stato eccepito il segreto professionale.