Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 37395/2024, udienza del 18 settembre 2024, ha analizzato l’istituto del delitto tentato, aderendo alla tesi soggettiva in tema di univocità degli atti.
Il delitto tentato, come è noto, costituisce fattispecie autonoma rispetto al reato consumato, e per la sua configurabilità, richiede la sussistenza sia dell’elemento soggettivo che di quello oggettivo; mentre l’elemento soggettivo è identico al dolo del delitto che il soggetto agente si propone di portare a compimento, l’elemento oggettivo ruota intorno alle nozioni di: idoneità degli atti, univocità degli atti e mancato compimento dell’azione o mancato verificarsi dell’evento.
Il delitto tentato si inserisce, dunque, tra gli estremi della semplice “cogitatio“, ovvero del mero accordo (di per sé non punibile, ai sensi dell’art. 115 cod. pen.) ed il delitto consumato essendo di volta in volta necessario stabilire quando un’azione, avendo superato la soglia della mera “cogitatio“, pur non essendo stato raggiunto lo scopo criminoso prefissatosi dall’agente, sia ugualmente punibile.
Idoneità degli atti
Per quanto concerne il requisito della idoneità degli atti, l’opinione maggioritaria invalsa nella giurisprudenza è nel senso che un atto può essere ritenuto idoneo quando, valutato “ex ante“ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (cfr., Sez. 5, n. 84/1996; Sez. 6, n. 11360/1998), il giudice, sulla base della comune esperienza dell’uomo medio, possa ritenere che quegli atti – indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei – fossero comunque tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata.
L’idoneità degli atti non va, infatti, valutata con riferimento ad un criterio probabilistico di realizzazione dell’intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l’agente si propone, configurandosi invece un reato impossibile per inidoneità degli atti, ai sensi dell’art. 49 cod. pen., in presenza di un’inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato che sia assoluta e indipendente da cause estranee ed estrinseche, ove l’azione, valutata “ex ante” e in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall’agente, risulti del tutto priva della capacità di attuare il proposito criminoso.
Univocità degli atti
…Tesi soggettiva
Per quanto riguarda, invece, la nozione di univocità degli atti, secondo la tesi c.d. soggettiva, si è affermato che l’atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione “ex ante” ed in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e a tale risultato sia univocamente diretto, laddove la prova del requisito dell’univocità dell’atto (da considerare quale parametro probatorio) può essere raggiunta, non solo, sulla base dell’atto in sé considerato, ma anche “aliunde” e, quindi, anche sulla base di semplici atti “preparatori” (magari accompagnati ed esaltati nella loro pregnanza euristica da confessioni o intercettazioni particolarmente significative), che rivelino la finalità dell’agente e addirittura l’imminente passaggio alla fase esecutiva del delitto, ma non ne postulino necessariamente l’avvio.
…Tesi oggettiva
Secondo altra opinione (ovvero quella che propende per la tesi c.d. oggettiva), gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, coincidenti, anche solo in minima parte, all’inizio dell’esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata; e ciò in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta; gli atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, secondo tale prospettazione, possono essere esclusivamente gli atti esecutivi.
Mentre per la tesi c.d. soggettiva l’univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete, sicché anche gli atti in sé “preparatori” possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci, al contrario per la tesi c.d. oggettiva, l’univocità coincide con l’inizio degli atti “tipici” di un determinato reato secondo il paradigma della fattispecie incriminatrice.
In tal modo, finisce però per essere riproposta l’impostazione invalsa sotto la vigenza del codice Zanardelli, che faceva riferimento a concetti quali “cominciamento”, “mezzi” ed “esecuzione”, lasciando insoluti (in particolare in materia di reati a forma libera) gli interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere la normativa in materia introducendo la disposizione di cui
all’art. 56 cod. pen. che, nel codice in vigore, non ripropone i concetti di “delitto tentato” e “delitto mancato” del vecchio codice Zanardelli, ma distingue tra tentativo non compiuto (quando l’azione non si compie) e tentativo compiuto (quando l’evento non si verifica), in tal modo facendo riferimento non solo all’esecuzione, ma anche all’azione.
E, poiché la ricerca delle chiavi di soluzione del problema della riconoscibilità del tentativo non può essere spinta oltre la lettera dell’art. 56 cod. pen., che rappresenta il punto di confluenza di tutte le nozioni descrittive con le quali si cerca di integrare il mezzo d’identificazione dell’univocità degli atti, va condiviso e ribadito l’orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui l’unico criterio di ordine generale, che può essere di valido ausilio nel riconoscimento dell’univocità, è costituito dall’imprevedibilità della non consumazione, ovvero da quella complessiva situazione di fatto in cui tutto fa supporre che il reato sarà commesso, e non appaiono percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità (cfr. Sez. 2, n. 18747 del 20/03/2007).
Ne consegue, quindi, che il tentativo è punibile non solo quando l’esecuzione è compiuta, ma anche quando l’agente ha posto in essere uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto; ovvero, in tutti quei casi in cui l’agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo, pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria, ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.
Va conclusivamente ed ancora una volta affermato il principio secondo cui per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come “preparatori”, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo così “che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo” (cfr., in questi termini, Sez. 2, n. 52189 del 14/09/2016, in cui la Corte ha ribadito che la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come preparatori, facciano fondatamente ritenere che l’agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo, che l’azione abbia la significativa probabilità di conseguire l’obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo; nel caso di specie, il duplice delitto di tentata rapina è stato ravvisato nella condotta degli imputati che, acquisita la disponibilità di guanti e cappelli, avevano compiuto una ricerca in automobile di istituti bancari non eccessivamente protetti e, in due occasioni, scesi dalla vettura, si erano portati, nel primo caso, nei pressi della porta di ingresso di una banca e, nell’altro, all’interno, salvo allontanarsi per la percepita presenza della vigilanza; conf., Sez. 2, n. 24302 del 04/05/2017, che ha ribadito tale principio in una fattispecie relativa a tentativo di rapina ad un furgone portavalori, con riferimento alla quale la S.C. ha ritenuto che erroneamente il tribunale del riesame, in riforma dell’ordinanza coercitiva, avesse escluso l’univocità degli atti solo per la non imminenza dell’assalto, senza tener conto degli altri indici utilizzabili per stabilire se l’azione avesse una significativa probabilità di essere portata a compimento, tra cui l’individuazione dell’obiettivo, la progettazione dell’azione nei minimi particolari, la progressione nell’organizzazione – con l’approvvigionamento di una pala gommata, di armi e di maschere per i volti – nonostante la certezza del monitoraggio delle forze dell’ordine, nonché la scelta di un’idonea strada con curve a gomito per l’agguato; cfr., anche, Sez. 2, n. 25264 del 10/03/2016, in cui la S.C. ha ritenuto legittima la condanna per concorso nel tentativo di rapina di due soggetti – uno dei quali in possesso di un taglierino e di una sacca utilizzati per compiere altre rapine – che avevano lasciato l’auto nei pressi di un ufficio postale con le portiere aperte e la chiave nel quadro di accensione, avevano cercato di sottrarsi al controllo di P.G. fornendo spiegazioni contrastanti circa la loro presenza “in loco”, ed avevano intrattenuto tra loro conversazioni intercettate da cui emergeva il comune intento di dissimulare la ragione di tale loro presenza; Sez. 2, n. 40912 del 24/09/2015, che ha ritenuto il delitto tentato in una fattispecie relativa alla presenza in ora notturna, all’ingresso del parcheggio di un supermercato, di tre persone, una delle quali – alla vista degli agenti – aveva gettato in terra un berretto modificato in passamontagna mediante due fori per gli occhi, mentre gli altri due avevano guanti in lattice e un coltello a serramanico; Sez. 2, n. 11855 del 08/02/2017, che ha ritenuto immune da censure la condanna per tentata rapina in danno di un furgone portavalori in quanto gli imputati – studiato il percorso, acquisita la conoscenza dei luoghi di predisposizione degli incassi ed altresì approntata un’autovettura di origine furtiva per garantirsi la fuga – avevano pedinato il mezzo muniti di un’arma
e di una maschera, non portando a termine l’azione per l’imprevisto transito di un’auto dei carabinieri).
La concezione del delitto tentato così come delineata conduce a ritenere infondato il rilievo difensivo secondo cui dovrebbero considerarsi non rilevanti, ai fini del giudizio di “univocità”, le circostanze apprese “aliunde” in quanto l’atto dovrebbe denunciare, in sé, e non alla luce di elementi ad esso estrinseci, il suo carattere “univoco”, ovvero la unidirezionalità verso l’obiettivo prefissato quale epilogo naturale e necessitato.
Si osserva, dai difensori, che, nel caso che occupa, gli “atti” descritti dagli operanti, ovvero le condotte tenute dagli odierni ricorrenti e di cui le due sentenze di merito hanno dato compiutamente conto, avrebbero assunto il significato “univoco” delineato nel capo di imputazione, soltanto alla luce della circostanza, acquisita dagli investigatori e non “denunziata” direttamente da essi, del passaggio sul posto, previsto di lì a poco, del portavalori che avrebbe rappresentato il reale obiettivo avuto di mira dagli odierni ricorrenti.
Ebbene, proprio la tesi “soggettiva” sposata dalla giurisprudenza della Suprema Corte porta a concludere nel senso che la “univocità” degli atti deve essere necessariamente letta alla luce delle circostanze conosciute dall’agente ed in vista delle quali egli abbia iniziato ad attuare il proprio proposito criminoso; in altri termini, l’atto può assumere valenza “univoca” proprio in considerazione
dell’obiettivo prefissosi dall’agente e che rappresenta un elemento “esterno” alla condotta che, tuttavia, ne rivela la univoca direzione.
Irrilevante, in altri termini, è che l’obiettivo dell’agente sia identificato indipendentemente dalla natura e fisionomia della condotta una volta che sia accertato che esso sia stato individuato e “mirato” dall’agente che lo abbia considerato, alla luce delle condizioni conosciute, suscettibile di essere perseguito e raggiunto.
