Fungibilità della pena detentiva: momento di cessazione del reato permanente a partire dal quale possono essere scomputate la custodia cautelare e le pene espiate senza titolo (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 45833/2024, udienza del 6 dicembre 2024, ha chiarito il criterio utilizzabile per l’individuazione del momento della cessazione del reato permanente ai fini dell’eventuale applicazione dell’istituto della fungibilità della pena detentiva.

L’istituto della fungibilità della pena detentiva è disciplinato dell’art. 657 cod. proc. pen. che prevede per il condannato la possibilità di computare i periodi di carcerazione sofferti in custodia cautelare o espiati sine titulo nella determinazione della pena detentiva da eseguire per altro reato.

Tale meccanismo di “compensazione” incontra tuttavia un limite temporale, previsto dal comma 4 del medesimo art. 657 cod. proc. pen., il quale dispone che “in ogni caso sono computate soltanto la custodia cautelare subita o le pene espiate dopo la commissione del reato per il quale deve essere determinata la pena da eseguire“. È anche evidente la ratio di tale previsione, ovvero la finalità di evitare che l’istituto della fungibilità finisca per divenire una sorta di stimolo a commettere reati, trasformando il pregresso periodo di carcerazione in una “riserva di impunità” utilizzabile per commettere impunemente ulteriori reati.

Il problema della individuazione del momento di commissione del reato per il quale è stato emesso l’ordine di esecuzione è particolarmente rilevante in casi in cui le sentenze riguardano reati permanenti, quali quelli associativi, nei quali va rigorosamente verificato il momento della cessazione della permanenza – e non quello del suo inizio – onde esser certi che la carcerazione ingiustamente sofferta risalga ad epoca successiva alla consumazione del reato.

Se si guarda al mero dato formale, proprio di una giurisprudenza ormai risalente e che riporta al dictum di Sez. U, n. 11021 del 13/07/1998, Montanari, la cessazione della permanenza andrebbe ancorata alla pronuncia della sentenza di primo grado.

Tuttavia, la Suprema Corte, di recente, nel giudicare una fattispecie relativa a richiesta di riconoscimento della continuazione in sede esecutiva, con applicazione del criterio di fungibilità delle pene previsto dall’art. 657, comma 4, cod. proc. pen., tra i delitti di cui agli artt. 73 e 74, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, giudicati rispettivamente da due sentenze irrevocabili, di cui quella per reato associativo successiva alla prima, ha affermato il principio di diritto secondo cui nei casi di condanna per un reato associativo che sia stato contestato senza l’indicazione della data di ritenuta cessazione della condotta criminosa, l’esclusione del computo del periodo di pena espiata inutilmente per altro reato non deve prescindere, ove la sentenza di condanna di primo grado per il reato associativo sia successiva al periodo di detenzione subito in relazione all’altro reato, dalla verifica in ordine alla sussistenza della prova della effettiva permanenza della condotta sino alla data di pronuncia della sentenza di primo grado, non potendosi presumere che il momento consumativo coincida con la pronuncia della sentenza di condanna di primo grado.

E dunque ne discende che il giudice dell’esecuzione, per potere affermare che la custodia cautelare subita o le pene espiate sono precedenti o successive rispetto alla commissione del reato per il quale deve essere determinato il trattamento sanzionatorio eseguibile, laddove ci si riferisca a delitti associativi, deve individuare preliminarmente il momento della cessazione della permanenza di tali condotte illecite, correlandolo cronologicamente alle frazioni detentive per le quali si invoca la disciplina della fungibilità (Sez. F, n. 33363 del 27/07/2023; conforme, Sez. 1, n. 20238 del 22/03/2007).

Si consideri inoltre che la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato il principio per il quale «ove il tempus commissi delicti non risulti esplicitamente indicato nel capo di imputazione, il giudice dell’esecuzione dovrà trarre i necessari riferimenti cronologici dalla motivazione della sentenza di condanna e, se occorre, anche dagli atti del procedimento con essa definito, non potendosi far riferimento al solo criterio formale per il quale la permanenza si intende cessata alla data di emissione della sentenza di condanna di primo grado».