Competenza per i procedimenti in cui è parte un magistrato della DNAA: principi affermati dalla Cassazione e conseguenze sul procedimento perugino dei presunti dossieraggi (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 43866/2024, udienza del 23 ottobre 2024 (allegata alla fine del post in versione anonimizzata), ha affermato che, in tema di competenza, la disciplina dettata dall’art. 11-bis cod. proc. pen. si applica solo ove il magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che assuma la qualità di indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato, sia stato applicato ad una direzione distrettuale antimafia ai sensi dell’art. 105 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, quando il fatto oggetto del procedimento penale rientri, ordinariamente, nella competenza dell’ufficio giudiziario presso il quale è stata disposta l’applicazione.

Il conflitto negativo di competenza

…La decisione della Corte di appello di Roma

Con sentenza dell’1° giugno 2021, la Corte di appello di Roma – dinanzi alla quale si discutevano gli appelli, presentati dal  Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Roma e da MS, avverso la sentenza dell’Il luglio 2016 del Tribunale di Roma, che aveva assolto FB e AI e condannato MS per i delitti di diffamazione aggravata e calunnia commessi in danno dei magistrati, all’epoca dei fatti in servizio nella Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, FCDR e RC – dichiarava la propria incompetenza funzionale ai sensi dell’art. 11 bis cod. proc. pen., rilevando che nelle more del giudizio di appello il dottor FCDR aveva assunto la funzione di Procuratore Nazionale Antimafia, e il dottor RC era stato nominato Procuratore della Repubblica di Perugia: in conseguenza delle funzioni assunte dal dottor FCDR presso un ufficio avente sede in Roma, si riteneva che fosse venuta meno, ai sensi dell’art. 11, comma 2, cod. proc. pen., la competenza dell’autorità giudiziaria romana; si riteneva, altresì, che le funzioni medio tempore assunte dal dottor RC impedissero di ritenere competente l’autorità giudiziaria perugina; veniva, dunque, disposta, proprio sulla base delle funzioni ricoperte dal dottor RC, la trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria fiorentina.

…e quella della Corte di appello di Firenze

Con ordinanza del 19 dicembre 2023 la Corte d’appello di Firenze ha sollevato conflitto negativo di competenza, rilevando che «il regime dei magistrati in forza alla Direzione Nazionale Antimafia è sui generis, poiché tale ufficio è istituito nell’ambito della Procura generale presso la Corte di cassazione»: poiché quei magistrati svolgono funzioni di merito ed hanno una competenza senza limiti territoriali, il generico richiamo dell’art. 11 bis cod. proc. pen. all’art. 11 cod. proc. pen. deve essere inteso nel senso che ai magistrati in forza alla Direzione Nazionale Antimafia – così come pacificamente accade per i consiglieri della Corte di cassazione e per i procuratori della Procura Generale presso la stessa – non si applica la regola generale dettata dall’art. 11 cod. proc. pen., salvo che gli stessi non siano applicati ad una procura distrettuale, poiché solo in questo caso «appare concreto il rischio che il procedimento che lo interessa non si svolga con la dovuta serenità ed imparzialità».

Ragionando diversamente, argomentano i giudici fiorentini, dovrebbe concludersi nel senso che tutti i procedimenti riguardanti i magistrati della Direzione Nazionale Antimafia dovrebbero essere trattati dall’autorità giudiziaria perugina, per il solo fatto che quell’ufficio ha sede nel distretto di Corte d’appello di Roma: ma si tratta, ad avviso del giudice remittente, di conclusione che confligge con la ratio della norma che riposa, come si ricava dalle motivazioni di Sez. U, n. 292 del 15/12/2004, dep. 2005, Scabbia, «nell’esigenza particolarmente marcata nel processo penale (stante la natura degli interessi coinvolti e l’assenza della mediazione dell’impulso paritario delle parti: v. Corte Cost. sent. n. 51/1998 e n. 147/2004) di evitare che il rapporto di colleganza e normale frequentazione, nascente dal comune espletamento delle funzioni nello stesso plesso territoriale, possa inquinare, anche solo nelle apparenze, l’imparzialità di giudizio».

Nel caso di specie, non evincendosi dagli atti, né dalla motivazione della sentenza dell’i giugno 2021, che il dottor FCDR avesse esercitato le sue funzioni in relazione ad indagini svolte ovvero a processi celebrati presso le sedi giudiziarie del distretto romano, non vi erano ragioni per spostare la sede di

svolgimento del processo.

Le richieste del PG d’udienza

Il Sostituto Procuratore generale ha chiesto dichiararsi la competenza della Corte di appello di Roma.

Le richieste del difensore di MS

Il difensore di fiducia di MS ha depositato memoria in data 15 ottobre 2024, chiedendo dichiararsi la competenza della Corte di appello di Perugia o in subordine di quella di Firenze.

Decisione della Corte di cassazione

Il conflitto sussiste, in quanto due giudici contemporaneamente ricusano la cognizione del medesimo fatto loro deferito, dando così luogo alla situazione di stallo processuale prevista dall’art. 28 cod. proc. pen., la cui risoluzione è demandata alla Suprema Corte dalle norme successive.

…La competenza appartiene alla Corte di appello di Roma

Il conflitto va risolto nel senso indicato dal giudice rimettente.

…Ricognizione normativa e giurisprudenziale della competenza ex art. 11, cod. proc. pen.

L’art. 11 cod. proc. pen. attribuisce la competenza per i procedimenti che vedono un magistrato quale indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato (in questi ultimi due casi, indipendentemente dalla circostanza che egli si sia – o meno – costituito parte civile: cfr. Sez. 5, n. 46098 del 12/11/2008) al giudice competente per materia «che ha sede nel capoluogo del distretto di Corte di appello determinato dalla legge», indicato nella tabella A allegata all’art. 1 disp. att. cod. proc. pen. (una tabella “circolare”, che opera in forza di un criterio obiettivo ed immediato attraverso un meccanismo a catena), così eliminando qualsiasi sospetto di parzialità che deriverebbe dal rapporto di colleganza e dalla normale frequentazione tra magistrati operanti in uffici giudiziari del medesimo distretto di corte d’appello.

Come si è osservato in dottrina, attraverso l’introduzione dell’art. 11 cod. proc. pen. il legislatore ha inteso evitare l’appannamento, almeno a livello di immagine, della neutralità del giudice e la correlata flessione dell’indice di affidabilità del suo decisum a motivo di possibili influenze ambientali, prevedendo una sedes processuale derogatoria rispetto alle ordinarie regole determinative della competenza per territorio.

Secondo la giurisprudenza costituzionale, l’art. 11 cod. proc. pen. costituisce un’eccezione al principio generale del giudice naturale, e trova la sua ratio nell’esigenza di «tutelare il diritto di difesa del cittadino imputato e gli interessi del magistrato danneggiato o offeso dal reato», e, contestualmente, in quella di «garantire la terzietà e l’imparzialità del giudice», attraverso un sistema che, individuando ex ante ed in via astratta la regola disciplinatrice della competenza territoriale, non vulnera l’art. 25 Cost. (in questi termini, in motivazione, Corte cost., sent. n. 390 del 15 ottobre 1991): dunque, «lo spostamento della competenza si giustifica e costituisce un meccanismo tradizionalmente adottato dal legislatore, già nella prima codificazione unitaria (art. 37 cod. proc. pen. del 1865), pur se varia è la regolamentazione che si è succeduta nel tempo. L’art. 11 cod. proc. pen. ha stabilito lo spostamento della competenza territoriale secondo un criterio predeterminato ed automatico, diretto a rispondere al principio di precostituzione del giudice (art. 25 Cost.)» (Corte cost., sent. n. 381 del 30 settembre 1999).

L’oramai consolidata giurisprudenza di legittimità ritiene che si tratti di competenza di natura funzionale, e non meramente territoriale.

Il dictum di Sez. U, n. 292 del 15/12/2004, dep. 2005, Scabbia, secondo cui «La speciale competenza stabilita dall’art. 11 cod. proc. pen. per i procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di indagato, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato ha natura funzionale, e non semplicemente territoriale, con conseguente rilevabilità, anche di ufficio, del relativo vizio in ogni stato e grado del procedimento», è stato successivamente ribadito da Sez. 6, n. 16984 del 08/01/2008, e, ancor più di recente, da Sez. 1, n. 1569 del 09/11/2023, dep. 2024, Gip Tribunale Potenza.

Per quanto in questa sede rileva, vale rammentare che la Corte costituzionale ha giudicato non fondata la questione di legittimità dell’art. 11 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede lo spostamento della competenza territoriale nel caso in cui un magistrato, già in servizio nel distretto, assuma la qualità di persona offesa o danneggiata dal reato per fatti commessi successivamente al suo trasferimento, ma riferiti unicamente ed immediatamente all’esercizio delle funzioni che egli ha svolto in quel distretto (Corte cost., sent. n. 381 del 30 settembre 1999), e manifestamente infondata la questione di legittimità dell’art. 11 cod. proc. pen., nella parte in cui non estende la deroga ai criteri di competenza territoriale ai magistrati che al momento del fatto avevano già cessato di appartenere all’ordine giudiziario (Corte cost., ord. n. 163 del 19 giugno 2013).

Diverso è, invece, il caso in cui il magistrato, successivamente al fatto, sia stato trasferito, o sia stato collocato fuori ruolo, o abbia cessato di appartenere all’ordine giudiziario: occorrendo farsi riferimento al momento del fatto (cfr. il tenore testuale dell’art. 11 cod. proc. pen., laddove parla di magistrato che «esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto»), tali eventi sono irrilevanti, come la Suprema Corte ha statuito in relazione a magistrato sospeso dal servizio (Sez. 1, n. 1681 del 28/06/1977), cessato dal servizio (Sez. 1, n. 40145 del 23/09/2009, relativa a magistrato onorario, e Sez. 5, n. 38436 del 30/05/2019, relativa a magistrato professionale), collocato fuori ruolo (Sez. 1, 15 luglio 1979).

L’unica ipotesi in cui il trasferimento determina conseguenze sulla competenza del magistrato è quella disciplinata dall’art. 11, comma 2, cod. proc. pen.: ed invero, se il magistrato interessato al procedimento si trasferisce, andando ad assumere le funzioni proprio nel distretto che ricomprende l’ufficio giudiziario al quale dovrebbero essere trasmessi gli atti, si determina un ulteriore spostamento, poiché diviene competente «il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di Corte di appello determinato ai sensi del medesimo comma 1».

Si è, conseguentemente, statuito che «Nel caso in cui la Corte di cassazione, annullando con rinvio la sentenza relativa al procedimento nel quale un magistrato risulti persona offesa, individui il giudice competente non essendo a conoscenza del fatto che nel frattempo il magistrato stesso era stato trasferito in un ufficio giudiziario del distretto della Corte di appello individuata quale giudice del rinvio, la competenza spetta alla Corte di appello individuata, a seguito di tale trasferimento, ai sensi dell’art. 11 cod. proc. pen. (in motivazione, la S.C. ha osservato che il mancato coordinamento tra l’art. 11 cod. proc. pen., norma che intende garantire i basilari valori di imparzialità, trasparenza e terzietà del giudice, e l’art. 627 cod. proc. pen. non è di ostacolo ad una interpretazione sistematica e logica che consenta di introdurre un’eccezione, normativamente prevista quale regola generale, alla regola attributiva di competenza per il giudizio di rinvio)» (Sez. 1, n. 17807 del 02/04/2008).

Da ultimo, è opportuno sottolineare che dottrina e giurisprudenza di legittimità concordano circa il fatto che «La disciplina dell’art. 11 cod. proc. pen. in materia di competenza per i procedimenti riguardanti magistrati non trova applicazione con riguardo ai magistrati della Corte di cassazione, trattandosi di ufficio giudiziario avente competenza nazionale»: nello statuire il principio, Sez. 6, n. 30760 del 13/05/2009, ha chiarito che «La norma in esame, nel prevedere una deroga alle ordinarie regole di competenza per l’ipotesi in cui in base ad esse la cognizione dei procedimenti riguardanti un magistrato apparterrebbe ad “un ufficio giudiziario compreso nel distretto di Corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni”, non può che riferirsi ai giudici di merito e ai magistrati del P.M. addetti ad un Tribunale o ad una Corte di appello», non potendo, dunque trovare applicazione «in relazione ai processi riguardanti magistrati della Corte di cassazione, la quale, avendo competenza nazionale, non appartiene ad alcun distretto di Corte di appello».

L’art. 11-bis cod. proc. pen., introdotto dall’art. 2 legge 2 dicembre 1998, n. 420, stabilisce che la competenza per i procedimenti che vedono quale indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato un magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo appartiene al «giudice determinato ai sensi dell’articolo 11».

È interessante notare che – così come si evince dalla lettura dei lavori parlamentari – il testo inizialmente approvato dalla Camera dei deputati prevedeva che questa ipotesi venisse disciplinata dal comma 1-ter dell’art. 11 cod. proc. pen., nel modo che segue: «1-ter. I procedimenti in cui assume la qualità di un imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato un magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia di cui all’articolo 76-bis dell’ordinamento giudiziario approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, e successive modificazioni, sono di competenza del giudice che ha sede nel capoluogo del distretto della Corte di appello di Roma»: si trattava, ad avviso del relatore, di una soluzione necessitata, «ritenendo di non potersi determinare altrimenti la competenza in ragione del particolare esercizio delle funzioni da parte dei suddetti magistrati».

Nel corso dell’esame in Senato, si decise di cancellare il comma 1-ter dell’art. 11 cod. proc. pen., e di inserire l’art. 1-bis cod. proc. pen., nella formulazione ancora oggi vigente, al fine di disciplinare – come può leggersi nei lavori preparatori – «la competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati della Direzione nazionale antimafia, per i quali è previsto espressamente lo stesso criterio valido per gli altri magistrati».

…Conclusioni

Alla luce delle coordinate ermeneutiche che si sono fin qui analizzate, il conflitto deve essere risolto nel senso invocato dal giudice rimettente.

Il presente procedimento vede quali persone offese due magistrati all’epoca dei fatti in servizio presso la Procura della Repubblica di Napoli: il dottor FCDR, successivamente nominato Procuratore Nazionale Antimafia, ed oggi uscito dall’ordine giudiziario, ed il dottor RC, oggi Procuratore della Repubblica di Perugia.

La corte d’appello di Roma ha ritenuto applicabile al caso di specie l’art. 11, comma 2, cod. proc. pen., poiché il procedimento, già spostato ai sensi dell’art. 11, comma 1, cod. proc. pen. a Roma (ufficio giudiziario competente per i procedimenti relativi a reati che coinvolgono magistrati che prestano servizio nel distretto di Napoli), non poteva più proseguire in quella sede, avendo il dottor FCDR assunto le sue funzioni presso la Direzione Nazionale Antimafia, che ha sede a Roma; da ciò conseguiva la trasmissione degli atti non all’autorità giudiziaria perugina, competente per i procedimenti relativi a reati che coinvolgono magistrati che prestano servizio nel distretto di Roma (spostamento precluso dalla circostanza che il dottor RC fosse medio tempore divenuto Procuratore della Repubblica di Perugia), ma a quella fiorentina, competente per i procedimenti relativi a reati che coinvolgono magistrati che prestano servizio nel distretto di Perugia.

La decisione è errata.

Ai sensi dell’art. 103 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159 (e, prima dell’entrata in vigore del codice antimafia, ai sensi dell’art. 76-bis R.D. 30 gennaio 1941, n. 12), la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo è istituita «nell’ambito della Procura generale della Corte di cassazione»: la sua competenza, estesa all’intero territorio nazionale, sottrae i magistrati ad essa addetti dalla generale applicazione dell’art. 11 cod. proc. pen, al pari di quanto avviene – come si è in precedenza illustrato – per i magistrati della Corte di cassazione.

Ed invero, se la ratio dell’istituto risiede nell’esigenza di «evitare che il rapporto di colleganza e normale frequentazione nascente dal comune espletamento delle funzioni nello stesso plesso territoriale possa inquinare, anche solo nelle apparenze, l’imparzialità del giudizio» (così, in motivazione, Sez. U, n. 292 del 15/12/2004, dep. 2005, Scabbia), è conseguenziale ritenere che esso non può trovare applicazione in relazione a magistrati – quali quelli addetti alla Direzione nazionale antimafia e terrorismo – che non svolgono funzioni territoriali ma hanno una dimensione operativa di carattere nazionale.

Residua, tuttavia, un ben delineato ambito di operatività all’art. 11-bis cod. proc. pen., norma che, se ci si fermasse all’affermazione appena fatta, sarebbe sostanzialmente priva di senso, e che, se si volesse invece prescindere dall’affermazione appena fatta, comporterebbe che i procedimenti relativi ai magistrati della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo dovrebbero essere trattati, sempre e comunque, dagli uffici giudiziari di Perugia: soluzioni, come è evidente, entrambi insoddisfacenti.

Ed invero, come espressamente previsto dall’art. 105 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, i magistrati addetti alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo possono essere applicati temporaneamente alle direzioni distrettuali, per la trattazione dei procedimenti relativi ai delitti indicati nei commi 3-bis e 3-quater dell’art. 51 cod. proc. pen., quando gli stessi siano «di particolare complessità» o «richiedono specifiche esperienze e competenze professionali».

Quando una tale evenienza si verifica, l’applicazione incardina il magistrato presso l’ufficio di destinazione, sia pure solo temporaneamente: in tali casi, limitatamente alla durata dell’applicazione, trova applicazione la speciale competenza derogatoria prevista dall’art. 11 bis cod. proc. pen., quando il fatto oggetto del procedimento penale rientri, ordinariamente, nella competenza dell’ufficio giudiziario presso il quale è stata disposta l’applicazione, sicché il procedimento che sarebbe stato di competenza dell’ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di applicazione diviene di competenza dell’ufficio giudiziario individuato ai sensi degli artt. 11, comma 1, cod. proc. pen., e 1 disp. att. cod. proc. pen.

…Il principio di diritto

In conclusione, deve essere affermato il seguente principio: «In tema di competenza, la disciplina dettata dall’art. 11 bis cod. proc. pen. si applica solo ove il magistrato addetto alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, che assuma la qualità di indagato, imputato, persona offesa o persona danneggiata dal reato, sia stato applicato ad una direzione distrettuale antimafia ai sensi dell’art. 105 d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, quando il fatto oggetto del procedimento penale rientri, ordinariamente, nella competenza dell’ufficio giudiziario presso il quale è stata disposta l’applicazione».

Sulla scorta delle considerazioni che precedono, deve rilevarsi che, dovendosi sempre guardare – a mente dell’art. 11 cod. proc. pen. – al «distretto di corte d’appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni», e venendo nel caso di specie in rilievo la posizione del Procuratore nazionale antimafia ed antiterrorismo, che quelle funzioni svolge in relazione all’intero territorio nazionale, non vi erano ragioni per spostare la sede di svolgimento del procedimento a carico di FB, AI e di MS: deve, dunque, essere dichiarata la competenza della Corte di appello di Roma, alla quale gli atti vanno trasmessi per il prosieguo.

Le conseguenze esterne della decisione della Corte di cassazione

Si apprende dall’edizione web del quotidiano Il Dubbio (a questo link per la consultazione) – ma la notizia è stata data da tutti i principali organi di stampa del Paese – che la decisione qui annotata potrebbe impattare profondamente sul procedimento, attualmente in carico alla Procura della Repubblica di Perugia e originato da un esposto del Ministro della Difesa Guido Crosetto, che ha ad oggetto le ipotesi accusatorie di accessi illeciti a scopo di dossieraggio in varie banche dati riservatissime, a partire da quella della Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.

Serve ricordare che tra gli indagati del procedimento in questione è compreso un ex sostituto procuratore della DNAA al quale vengono contestate ipotesi di reato che risalirebbero proprio al periodo in cui prestava servizio in tale ufficio giudiziario.

Stando a quando riferito, il GIP di Perugia, proprio sulla scorta della sentenza n. 43866/2024, avrebbe dichiarato la propria incompetenza ed indicato Roma quale sede giudiziaria competente, in accoglimento di un’eccezione sollevata dalla difesa dell’ex magistrato.

Contestualmente, si è in attesa dell’udienza del Tribunale del riesame del capoluogo umbro che dovrà pronunciarsi sull’appello della Procura di Perugia contro il rigetto, ad opera del GIP, della richiesta di emissione della misura cautelare degli arresti domiciliari nei confronti del citato magistrato ed anche in questo caso la sua difesa solleverà la medesima eccezione.

Note di commento

Questo potrebbe essere il secondo dei casi eclatanti in cui la Procura perugina ottiene risultati magri o addirittura nulli a fronte di roboanti proclami iniziali.

Il primo, ormai consegnato agli archivi, è quello che ebbe ad oggetto il cosiddetto “scandalo Palamara”.

Partito con l’etichetta di “madre di tutti i processi” è finito con una modesta condanna del “padre dello scandalo” per il reato di traffico di influenze illecite (a questo link per un nostro approfondimento).

Il secondo, quello dei presunti dossieraggi, è stato a sua volta etichettato come la scoperta del “verminaio” ed ha implicato fin qui una vasta attività di indagine, audizioni parlamentari, interesse spasmodico della politica e dell’opinione pubblica, insomma tutto il gran ballo che si muove solitamente attorno a vicende di simile portata.

Tutto questo potrebbe finire, ovviamente per il versante perugino, per una sentenza della Corte di cassazione.

Una decisione recente, senza dubbio, ma basta leggerla per comprendere che affonda le sue radici in un percorso avviato e delineato da anni.

Vale sempre ma in un procedimento delicato e complesso come quello sui presunti dossieraggi vale ancora di più: non sarebbe stato il caso di analizzare la questione della competenza prima di qualsiasi altra cosa? La presenza tra gli indagati di un ex sostituto della DNA non avrebbe dovuto rappresentare un ineludibile campanello d’allarme? Non sarebbe stato meglio dedicare allo studio e all’approfondimento almeno parte delle ore e dei giorni impegnati in apparizioni pubbliche per quanto istituzionali potessero essere?

Viene alle mente una vicenda parallela di tanti anni fa, quella della mitica indagine sulla massoneria condotta dalla Procura della Repubblica di Palmi che portò all’accumulo dei famosi dieci metri cubi di atti.

Finì come doveva finire: dopo anni di indagine, dopo avere difeso ostinatamente la competenza del suo ufficio, dopo avere trasformato il procedimento in un gigantesco contenitore in cui qualsiasi Procura italiana che disponesse di atti vagamente connessi all’inchiesta li faceva confluire senza alcuno sbarramento, dopo arresti e scandali, dopo che la Commissione parlamentare antimafia elevò la vicenda a paradigma del decadimento istituzionale, il Procuratore di Palmi trasmise improvvisamente gli atti alla Procura di Roma la quale in breve chiese e ottenne l’archiviazione.

Sarebbe meglio pensarci prima, decisamente: la competenza non è tra le varie ed eventuali.