Obbligo dei soggetti sottoposti a misure di prevenzione di comunicare le variazioni patrimoniali: la discutibile giurisprudenza di legittimità (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 45781/2024, udienza del 4 dicembre 2024, ha escluso che l’obbligo gravante su chi sia già stato sottoposto a misura di prevenzione di comunicare le variazioni del proprio patrimonio al nucleo di polizia tributaria sia escluso mentre l’esecuzione della misura è sospesa, così come per i beni di provenienza ereditaria e per quelli destinati al soddisfacimento di bisogni quotidiani.

Decisione impugnata

Con sentenza del 22 febbraio 2022 il Tribunale, in rito abbreviato, ha condannato RS alla pena di giustizia per il reato dell’art. 80 d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, perché, essendo già stato sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con decreto del Tribunale del 4 novembre 2013, poi integrato con un ulteriore decreto del 1° aprile 2015, ometteva di comunicare le variazioni intervenute nel proprio patrimonio in conseguenza della eredità ricevuta dal padre il 3 aprile 2016 e di quella ricevuta dalla madre il 7 settembre 2019.

Con sentenza del 16 gennaio 2024 la Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado.

Ricorso per cassazione

Avverso il predetto provvedimento ha proposto ricorso l’imputato.

Con un unico motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione perché le due variazioni patrimoniali erano avvenute in un momento in cui l’ordinanza applicativa della misura di prevenzione era stata sospesa dal Tribunale con provvedimento del 15 gennaio 2016 per sopravvenuta carcerazione dell’odierno ricorrente, e ripristinata soltanto il 29 ottobre 2020; l’accrescimento patrimoniale per via ereditaria si era verificato, pertanto, quando la misura di prevenzione era sospesa e non sussisteva alcun obbligo di comunicazione; inoltre, nel periodo in esame, in cui era detenuto, l’imputato era impossibilitato a disporre dei dati e delle informazioni contabili circa la reale consistenza dell’accrescimento del suo patrimonio ed aveva ragionevoli motivi per ritenere che l’accrescimento fosse stato inferiore alla soglia di legge; ancora, il ricorrente riteneva che l’avvenuta comunicazione di entrambe le denunce di successione all’Agenzia delle entrate equivalesse ad adempimento di fatto dell’obbligo di comunicazione; inoltre, quantomeno per l’immobile di D., ereditato dal padre, in cui il ricorrente ha sempre mantenuto la residenza anagrafica, esso dovrebbe essere escluso dall’obbligo di comunicazione in quanto bene destinato al soddisfacimento dei bisogni quotidiani, ne consegue che non è giustificato l’aumento di pena disposto dal giudice del merito a titolo di continuazione interna.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è infondato.

Il ricorrente deduce che durante il periodo di sospensione della misura di prevenzione non sarebbe vigente l’obbligo di comunicazione.

L’argomento è infondato in quanto la giurisprudenza di legittimità ritiene, al contrario, che l’obbligo di comunicazione non presupponga l’esecuzione in atto della misura (Sez. 1, n. 14842 del 16/02/2024; Sez. 1, n. 17903 del 16/03/2023).

Come evidenziato nella prima delle due suddette pronunce, infatti, “divenuto definitivo il decreto applicativo della misura sorge l’obbligo comunicativo che permane per dieci anni. Detto obbligo, peraltro, non presuppone l’esecuzione della misura, il cui inizio può precedere la definitività e la cui fine interviene, di regola, per decorso del termine della misura, termine più breve di quello decennale relativo all’obbligo comunicativo”.

La seconda pronuncia aggiunge che nel caso, quale quello in esame, di sospensione dell’esecuzione della misura di cui all’art. 14, comma 2-ter, d. lgs. n. 159 del 2011 ovvero per altra causa, l’obbligo comunicativo permane e il relativo inadempimento integra il reato per il quale si procede.

D’altronde, l’art. 80 individua come soggetti attivi del reato le persone “già” sottoposte a misura di prevenzione, non “attualmente” sottoposte a misure di prevenzione (“Salvo quanto previsto dall’articolo 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Entro il 31 gennaio di ciascun anno, i soggetti di cui al periodo precedente sono altresì tenuti a comunicare le variazioni intervenute nell’anno precedente, quando concernono complessivamente elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14. Sono esclusi i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani”), per cui i presupposti dell’obbligo comunicativo sono soltanto che il soggetto attivo sia stato raggiunto da un decreto applicativo della misura di prevenzione e che non siano decorsi dieci anni.

Il ricorso deduce che, nel periodo in cui era detenuto, l’imputato era impossibilitato a disporre dei dati e delle informazioni contabili circa la reale consistenza dell’accrescimento del suo patrimonio ed aveva ragionevoli motivi per ritenere che l’accrescimento fosse stato inferiore alla soglia di legge. L’argomento è inammissibile, in quanto la mancata conoscenza da parte del ricorrente delle informazioni contabili dettagliate sull’accrescimento patrimoniale e la possibilità che esso fosse inferiore alla soglia di legge sono mere congetture, ed un argomento ipotetico o congetturale non è idoneo a viziare la motivazione del provvedimento impugnato (Sez. 1, n. 17102 del 15/02/2024; Sez. 2, sentenza n. 3817 del 09/10/2019, dep. 2020).

Il ricorso deduce che nel caso in esame la variazione patrimoniale è stata conseguenza di una successione ereditaria, e che in tale caso non sussisterebbe l’obbligo di comunicazione di cui all’art. 80 in quanto assorbito dall’avvenuta presentazione della denuncia di successione. L’argomento è infondato. La giurisprudenza di legittimità ritiene, infatti, che il delitto di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali, da parte di sottoposto a misura di prevenzione, è configurabile anche nel caso in cui l’omissione abbia ad oggetto un accrescimento patrimoniale derivante da un atto soggetto a regime di pubblicità legale, in quanto tale formalità non assicura all’autorità competente la conoscenza dei mutamenti dello stato patrimoniale dell’obbligato. (Sez. 1, n. 44586 del 19/10/2021; conformi Sez. 1, n. 12433 del 19/03/2009; Sez. 1, n. 10432 del 24/02/2010), atteso che la conoscibilità dell’avvenuto trasferimento derivante dall’adempimento delle formalità connesse alla trascrizione non garantisce all’amministrazione finanziaria la reale conoscenza dei mutamenti dello stato patrimoniale dell’interessato, assicurata invece dalla segnalazione eseguita ai sensi dell’art. 30 della citata legge (Sez. 5, n. 15220 del 18/02/2003).

Ancora più in particolare, nello specifico caso in cui la variazione patrimoniale sia conseguenza di un acquisto per successione ereditaria, le Sezioni unite penali hanno ritenuto che l’obbligo di comunicazione sussista comunque, fermo l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività (Sez. U, 28/11/2024, Vitagliano, informazione provvisoria n. 16/2024), censura sull’offensività in concreto della condotta che non è stata proposta nel caso in esame e che comunque va apprezzata rispetto al bene giuridico posto in pericolo, tenuto conto che l’obbligo di comunicazione imposto tende, da un lato, «a garantire che il nucleo di polizia tributaria venga effettivamente e sollecitamente a conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che la possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall’altro, a rendere obbligatoria per l’amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale» (Corte cost., sent. n. 81 del 2014).

Il ricorso deduce che l’obbligo di comunicazione non sussisterebbe quantomeno per l’immobile di D., ereditato dal padre, in cui il ricorrente ha sempre mantenuto la residenza anagrafica, in quanto tale bene è destinato al soddisfacimento dei bisogni quotidiani. L’argomento è infondato, in quanto la giurisprudenza di legittimità ritiene che la deduzione della destinazione abitativa del cespite immobiliare oggetto dell’incremento patrimoniale non sia sufficiente ad escludere la sussistenza dell’obbligo di comunicazione (Sez. 6, n. 16032 del 17/02/2009). Infatti, come evidenziato in quest’ultima decisione, agli effetti di cui all’art. 80, i “beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani” sono i “beni ad utilizzazione quotidiana”, ovvero “quei beni materiali destinati ad assicurare il soddisfacimento giornaliero delle esigenze primarie di vita della persona”, tra cui non rientrano i beni immobili, che non si prestano ad essere consumati per effetto dell’uso giornaliero.

In definitiva, il ricorso è infondato.

Note di commento

Nessuna apertura, come si è visto, è stata concessa dal collegio di legittimità ad alcuna delle deduzioni difensive.

Conviene esaminarle una per una per verificare se una simile chiusura sia giustificata in tutto o in parte, oppure no.

…Sospensione della misura di prevenzione e suoi effetti sulla persistenza dell’obbligo di comunicazione delle variazioni patrimoniali

Potrebbe avere un certo rilievo un parallelo tra l’art. 80, Codice Antimafia, oggetto della decisione qui annotata, e l’art. 73, stesso Codice.

Appartengono entrambi al Titolo V del Libro I del Codice, denominato “Effetti, sanzioni e disposizioni finali”.

L’art. 73 è inserito nel Capo III (Sanzioni) mentre l’art. 80 è inserito nel Capo IV (Disposizioni finali) ma la fattispecie incriminatrice di quest’ultimo è contenuta nell’art. 76, comma 7, anch’esso inserito nel Capo delle sanzioni.

Entrambe le previsioni condividono dunque esplicitamente la natura penale e sono ovviamente soggette a tutti i principi che ne discendono, ivi compreso quello dell’offensività.

Un ulteriore tratto comune deriva dalla ricorrenza nella descrizione di entrambe le condotte della stessa espressione.

Così dispone l’art. 73, rubricato “Violazioni al codice della strada”: “Nel caso di guida di un autoveicolo o motoveicolo, senza patente, o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata, la pena è dell’arresto da sei mesi a tre anni, qualora si tratti di persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione personale”.

E così dispone il citato art. 80, comma 1, primo periodo: “Salvo quanto previsto dall’articolo 30 della legge 13 settembre 1982, n. 646, le persone già sottoposte, con provvedimento definitivo, ad una misura di prevenzione, sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia economico-finanziaria del luogo di dimora abituale, tutte le variazioni nell’entità e nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore ad euro 10.329,14”.

Constatata l’identità della formula espressiva, si ricorda che una recentissima pronuncia della stessa prima sezione penale, precisamente Cassazione penale, Sez. 1^, sentenza n. 44259/2024, udienza del 19 novembre 2024, ha affermato che non integra il reato previsto dall’art. 73 d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159 la condotta del soggetto che, già sottoposto ad una misura di prevenzione personale, si ponga alla guida di un autoveicolo o motoveicolo senza patente, o dopo che la stessa sia stata negata, sospesa o revocata, quando la misura di prevenzione non sia più in vigore in quanto interamente eseguita.

La decisione appena citata (già oggetto di un autonomo commento di Terzultima Fermata, consultabile a questo link) precisa ulteriormente che “Un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma incriminatrice impone infatti di ritenere che il reato previsto e punito dall’art. 73 del codice antimafia possa essere commesso unicamente dal soggetto che sia al momento del fatto sottoposto a misura di prevenzione personale. Diversamente opinando – ossia ritenendo il reato configurabile a carico di qualsiasi soggetto che, già sottoposto ad una misura di prevenzione personale, si ponga alla guida di un autoveicolo senza essere munito della prescritta patente – verrebbe inevitabilmente a delinearsi una responsabilità d’autore, ossia, usando le parole della Corte costituzionale (sentenza n. 211/2012) «una fattispecie penale che (ha) come presupposto una qualità della persona non connessa alla condotta», nella quale verrebbe ad essere incriminato il pregresso status di sottoposto a misura di prevenzione personale, pur se lo stesso non è in alcun modo in grado di comportare una maggiore pericolosità o dannosità, e, quindi, offensività, della condotta”.

Non sfugge che la sentenza appena citata ha fatto riferimento ad una misura già scontata mentre quella qui annotata ha ad oggetto una misura soltanto sospesa ma non sfugge neanche che le argomentazioni utilizzate nella prima avrebbero meritato di essere prese in considerazione dalla seconda, non fosse altro che per confutarle adeguatamente ma così, tuttavia, non è stato.

…Limitazioni conoscitive derivanti dalla detenzione

Questa specifica deduzione del ricorrente il collegio della prima penale è stata trattata con noncuranza dal collegio della prima penale, che l’ha considerata niente più che una congettura.

Una risposta fiacca, a dir poco: se proprio di presunzioni logiche si deve parlare, è assai più credibile quella per cui la detenzione carceraria crea fisiologicamente difficoltà conoscitive, soprattutto se la conoscenza pretesa dalla fattispecie incriminatrice riguarda un ambito valutativo, come è certamente il valore attribuibile ad un compendio ereditario.

…Provenienza ereditaria dei beni che hanno comportato la variazione patrimoniale non comunicata nelle forme prescritte

Il ricorrente, come si è visto, ha fatto leva sul regime di pubblicità legale proprio delle successioni e sul conseguente raggiungimento, sia pure per via indiretta, dello scopo comunicativo.

Il collegio decidente ha destinato al macero anche questa deduzione, limitandosi ad osservare che “la conoscibilità dell’avvenuto trasferimento derivante dall’adempimento delle formalità connesse alla trascrizione non garantisce all’amministrazione finanziaria la reale conoscenza dei mutamenti dello stato patrimoniale dell’interessato, assicurata invece dalla segnalazione eseguita ai sensi dell’art. 30 della citata legge”.

Ha utilizzato tra l’altro a sostegno di tale tesi la recentissima decisione Vitagliano del 28 novembre 2024 delle Sezioni unite penali della quale in atto è nota soltanto l’informazione provvisoria n. 16/2024.

Ora, è vero che le Sezioni unite hanno affermato che l’obbligo di comunicazione ex art. 80 sussista anche nel caso di acquisti per successione ereditaria ma è altrettanto vero che hanno avuto cura di precisare che è “fermo l’onere del giudice di verificare, dandone adeguata motivazione, l’idoneità della condotta a porre in pericolo il bene giuridico protetto, alla stregua del canone di offensività”.

Di questo onere di verifica non si trova alcuna traccia nella decisione della prima sezione penale, dal momento che si limita a richiamare tautologicamente l’esigenza che “che il nucleo di polizia tributaria venga effettivamente e sollecitamente a conoscenza della variazione intervenuta nel patrimonio di soggetti di accertata pericolosità sociale (e non semplicemente che la possa conoscere, effettuando indagini di propria iniziativa); dall’altro, a rendere obbligatoria per l’amministrazione una verifica altrimenti solo eventuale (Corte cost., sent. n. 81 del 2014)”.

Questa argomentazione equivale ad ignorare la pronuncia delle Sezioni unite, posto che continua a mettere in primo piano ed in modo esclusivo l’obbligo di comunicazione diretta al Nucleo di polizia tributaria, la necessità che tale Corpo non sia costretto a fare accertamenti di propria iniziativa ed infine, ma non ultima, una sorta di presunzione, questa sì illogica, di incomunicabilità tra le amministrazioni statali, praticamente escludendo che cioè che sa l’Agenzia delle Entrate non sappia anche la Polizia tributaria.

E, sia detto en passant, il collegio, citando la decisione 81/2014 della Consulta, ha omesso di ricordare un suo ulteriore passaggio in cui si afferma che «La questione sollevata coglie un indubbio profilo di criticità del paradigma punitivo considerato. Nondimeno, l’intervento che il giudice a quo propone per porvi rimedio è impraticabile da questa Corte […] Al riguardo, è […] dirimente il rilievo che questa Corte non può rimodulare liberamente le sanzioni degli illeciti penali. Se lo facesse, invaderebbe un campo riservato alla discrezionalità del legislatore, stante il carattere tipicamente politico degli apprezzamenti sottesi alla determinazione del trattamento sanzionatori». Nel passaggio immediatamente successivo, la motivazione della decisione n. 81 esplicita chiaramente le ragioni dell’astensione della Consulta da una sentenza manipolativa: «L’odierno rimettente non lamenta, peraltro, che l’omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali sia punita in modo ingiustificatamente più aspro di altra fattispecie omogenea. Censura, invece, che essa sia punita in modo irragionevolmente uguale – quanto a pena detentiva – ad altra fattispecie in assunto più grave, individuata segnatamente nel delitto di trasferimento fraudolento di valori al fine di eludere la legge in materia di misure di prevenzione o di commettere reati di riciclaggio (art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992). Le due prospettive non sono, peraltro, equivalenti. Nel primo caso – ove ravvisi l’arbitrarietà della soluzione legislativa denunciata – la Corte può rimuovere il vulnus allineando la risposta punitiva della fattispecie in discussione a quella della fattispecie analoga; nel secondo dovrebbe scegliere invece essa stessa, in modo “creativo”, la pena da sostituire a quella censurata, così da “scaglionare” le ipotesi in comparazione sul piano sanzionatorio: operazione che le è preclusa. In effetti, «se non si riscontra una sostanziale identità tra le fattispecie prese in considerazione, e si rileva invece, come nel caso in esame, una sproporzione sanzionatoria rispetto a condotte più gravi, un eventuale intervento di riequilibrio di questa Corte non potrebbe in alcun modo rimodulare le sanzioni previste dalla legge, senza sostituire la propria valutazione a quella che spetta al legislatore».

Appare quindi un’operazione assai discutibile invocare a sostegno della decisione oggetto di questo post una pronuncia della Corte costituzionale che non nasconde i suoi dubbi sulla “criticità del paradigma punitivo considerato” e non interviene perché la questione posta dal giudice a quo ha sbagliato bersaglio.

…Gli immobili ad uso abitativo non rientrano tra i beni destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani

L’argomento sul quale il collegio ha fondato l’esclusione degli immobili ad uso abitativo da quelli destinati al soddisfacimento dei bisogni quotidiani, cioè il fatto che “non si prestano ad essere consumati per effetto dell’uso giornaliero”, appare piuttosto eccentrico, non contenendo la fattispecie ex art. 80 e 76, comma 7, Codice Antimafia, alcun passaggio che autorizzi un’interpretazione in tal senso.

Si cita poi, come indicazione normativa di segno opposto, l’istituto civilistico del fondo patrimoniale la cui costituzione è così descritta dall’art. 167, cod. civ.: “Ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili o mobili iscritti in pubblici registri, o titoli di credito, a far fronte ai bisogni della famiglia”.

In conclusione

Non si vuole pretendere a tutti i costi che la sentenza oggetto di questo scritto sia sbagliata, niente affatto.

Si afferma invece che il percorso argomentativo di cui è frutto dell’assemblaggio di una sequela di precedenti, richiamati e valorizzati come fossero fatti immodificabili, laddove sarebbe stato utile se non necessario allargare lo sguardo.

Ma, come già si diceva, così non è stato.