Rilievo del “tempo silente” in materia cautelare: l’ennesimo irrisolto contrasto interpretativo (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 40004/2024, udienza del 12 settembre 2024, ha avuto l’occasione di pronunciarsi sul rilievo del “tempo silente” in materia cautelare, constatando anzitutto l’esistenza di un conflitto interpretativo.

Serve premettere, quanto alla rilevanza del cosiddetto tempo silente, che l’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. prevede per i reati aggravati ai sensi dell’art. 416-bis.1 cod. pen., l’applicazione della misura custodiale intramuraria, a meno che siano acquisiti elementi dai quali risulti l’insussistenza delle esigenze cautelari ovvero che in relazione al caso concreto i pericula libertatis possano essere soddisfatti con altre misure cautelari meno afflittive.

Si registrano sul punto due diversi orientamenti nella giurisprudenza di legittimità.

Secondo una prima impostazione, pur se per i reati di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è prevista una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, il tempo trascorso dai fatti contestati – alla luce della riforma di cui alla legge 16 aprile 2015, n. 47 e di una esegesi costituzionalmente orientata della stessa presunzione – deve essere espressamente considerato dal giudice, ove si tratti di un rilevante arco temporale privo di ulteriori condotte dell’indagato sintomatiche di perdurante pericolosità, potendo lo stesso rientrare tra gli «elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari», cui si riferisce lo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen. (Sezione 6, n. 2112 del 22/12/2023; Sezione 6, n. 31587 del 30/5/2023; Sezione 5, n. 1525 del 6/12/2023; Sezione 5, n. 31614 del 13/10/2020). Secondo un diverso orientamento, privilegiato dal collegio, invece, la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. può essere superata solo con il recesso dell’indagato dall’associazione o con l’esaurimento dell’attività associativa, mentre il cd. tempo silente (ossia il decorso di un apprezzabile lasso di tempo tra l’emissione della misura e i fatti contestati) non può, da solo, costituire prova dell’irreversibile allontanamento dell’indagato dal sodalizio, potendo essere valutato esclusivamente in via residuale, quale uno dei possibili elementi (tra cui, ad esempio, un’attività di collaborazione o il trasferimento in altra zona territoriale) volto a fornire la dimostrazione, in modo obiettivo e concreto, di una situazione indicativa dell’assenza di esigenze cautelari (Sezione 2, n, 6592 del 25/1/2022; Sezione 2, n. 38848 del 14/7/2021; Sezione 5, n. 21900 del 7/5/2021; Sezione 2, n. 7837 del 12/2/2021; Sezione 5, n. 26371 del 24/7/2020; Sezione 2, n. 7260 del 27/11/2019; Sezione 5, n. 45840 del 14/6/2018).

Tale principio è stato affermato anche a proposito dei reati con l’aggravante del metodo mafioso di cui all’art. 416 bis.1 cod. pen. (Sezione 2, n. 7837/2021, cit.; Sezione 5, n. 4321 del 18/12/2020; Sezione 1, n. 23113 del 19/10/2018; Sezione 5, n. 35848 del 11/6/2018; Sezione 2, n. 3105 del 22/12/2016; Sezione 3, n. 33051 del 8/3/2016).

Dunque, la presunzione relativa di concretezza ed attualità del pericolo di recidiva è superabile solo dalla prova circa l’affievolimento o la cessazione di ogni esigenza cautelare, in difetto della quale l’onere motivazionale incombente sul giudice ai sensi dell’art. 274 cod. proc. pen. deve ritenersi rispettato mediante il semplice riferimento alla mancanza di elementi positivamente valutabili nel senso di un’attenuazione delle esigenze di prevenzione.

Del resto, la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari e di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, di cui all’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., è prevalente, in quanto speciale, rispetto alla norma generale stabilita dall’art. 274 cod. proc. pen., sicché, se il titolo cautelare riguarda i reati previsti dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., detta presunzione fa ritenere sussistente, salvo prova contraria, i caratteri di attualità e concretezza del pericolo (Sezione 5, n. 4950 del 7/12/2021; Sezione 2, n. 6592/2022 cit.; Sezione 5, n. 4321/2020, cit.).

2 commenti

  1. Per l’ennesima volta la Corte perde l’occasione di essere realmente giudice del diritto. Nonostante l’obbligo di trasmettere gli atti alle Sezioni Unite (in presenza di un radicato contrasto interpretativo), si preferisce trincerarsi dietro l’irresponsabilità e la non impugnabilità (trattandosi di aspetto che non è annoverabile nell’errore di fatto). Si ha timore di un responso nomofilattico non gradito ? Che superando presunzioni incivili (cfr. permanenza della pericolosità in presenza di fatti associativi datati nel tempo e privi di ulteriori elementi successivi, significativi della permanenza dell’opzione criminale), offra un responso di civilità ?

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    1. Ha perfettamente ragione. E’ una delle tante occasioni perse dalla Suprema Corte che sta smarrendo il senso della sua funzione nomofilattica senza, peraltro, che questo porti il minimo vantaggio per l’altra sua funzione di controllore dell’ortodossia procedurale del caso concreto.

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