La Cassazione sezione 1 con la sentenza numero 43631/2024 ha ricordato che ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell’art. art. 16- nonies, d. I. n. 8 del 15 gennaio 1991, il giudice, nel valutare il “sicuro ravvedimento” dell’istante, deve tener conto di indici sintomatici quali l’ampiezza dell’arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime dei reati commessi.
È opportuno premettere che la liberazione condizionale, introdotta nel nostro ordinamento quale strumento utile a contribuire alla gestione degli stabilimenti penitenziari, costituiva l’unica possibilità, per il detenuto, di ottenere la scarcerazione prima del termine finale della pena; tuttavia, dopo l’entrata in vigore dell’Ordinamento penitenziario del 1975, la liberazione condizionale si affianca ai nuovi istituti in quanto strumento atto a determinare la prosecuzione della pena in un regime di libertà vigilata, che si contrappone comunque alla condizione di detenuto.
L’evoluzione giurisprudenziale della Cassazione, relativamente all’istituto, ha seguito un arco nel corso del quale, partendo da una concezione che non configurava la liberazione condizionale come misura alternativa (dal momento che essa muove dal presupposto indefettibile del sicuro ravvedimento del condannato) è, infine, approdato ad una sostanziale parificazione alle altre misure alternative, seppure essa sia connotata dal non essere un semplice modo alternativo di espiazione della pena tendenzialmente volto al reinserimento sociale.
Il fondamentale requisito previsto per l’ammissione alla liberazione condizionale è costituito dal “sicuro ravvedimento” del condannato, desumibile dal comportamento tenuto durante il tempo di esecuzione della pena.
È noto che il “ravvedimento” è un elemento di difficile verifica, essendo esso legato al mondo interiore del soggetto condannato.
In genere, si intende per ravvedimento un riscatto morale del condannato, colto da una valutazione globale della personalità che consideri tutti gli atti o le manifestazioni di condotta, di contenuto materiale e morale, tali da assumere un valore sintomatico.
Occorre, cioè, individuare un comportamento attivo, cli pronta e costante adesione alle regole, un riguardoso e consapevole rispetto verso gli operatori penitenziari, un’azione riparatrice verso le vittime dei reati, un reale interessamento verso dette vittime, una sollecitudine verso la sorte delle persone offese (ad esempio, per attenuare i danni e alleviarne il dolore, per chiedere loro solidarietà umana: aspetto peculiare che non va sovrapposto necessariamente con quello di un eventuale risarcimento dei danni).
Secondo l’orientamento consolidato della Suprema Corte, il giudizio prognostico di ravvedimento deve essere formulato sulla base di un completato percorso trattamentale di rieducazione e recupero, in grado di sostenere la previsione, in termini di certezza, di una conformazione al quadro ordinamentale e sociale a suo tempo violato (Sez. 5, n. 11331 del 10/12/2019, dep. 2020; Sez. 1, n. 486 del 25/09/2015, dep. 2016; Sez. 1, n. 45042 del 11/07/2014; Sez. 1, n. 34946 del 17/07/2012).
Dunque, la nozione di “ravvedimento“, che rileva ai fini della concessione della liberazione condizionale, ai sensi dell’art. 176 cod. pen., comprende il complesso dei comportamenti concretamente tenuti ed esteriorizzati dal condannato, durante il tempo dell’esecuzione della pena, obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale di rieducazione e di recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte e a formulare, in termini di certezza o di elevata e qualificata probabilità, confinante con la certezza, un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita all’osservanza della legge penale in precedenza violata.
Ancora si osserva che, nella valutazione del percorso trattamentale, il giudice di sorveglianza deve basarsi sulle relazioni provenienti dagli organi deputati all’osservazione del condannato, pur senza essere vincolato ai giudizi ivi espressi, competendo al medesimo giudice, al di fuori d’inammissibili automatismi, ogni definitiva valutazione circa la pregnanza e concludenza dell’operato processo di revisione critica.
In tale prospettiva, si osserva che titolo e gravità dei reati costituiscono il punto di partenza per la complessiva valutazione della personalità del condannato, al fine di accertarne il ravvedimento, che deve essere “sicuro”, sicché si impone una valutazione, rigorosa e penetrante, anche in relazione ovviamente all’allarme sociale connesso ai reati per i quali il condannato è in espiazione della relativa pena (Sez. 1, n. 1699 del 29/05/1985).
Dunque, va verificata la sussistenza di un effettivo e irreversibile cambiamento, espresso tramite il profondo pentimento, da dimostrarsi con comportamenti non disgiunti dall’attenzione alla necessità di lenire le conseguenze, materiali e morali, delle condotte delittuose nei confronti delle vittime. Il “sicuro ravvedimento“, quindi, non consiste nella mera ordinaria buona condotta del condannato, necessaria per fruire dei benefici previsti dall’ordinamento penitenziario, ma implica comportamenti positivi dai cui poter desumere l’abbandono delle scelte illegali, tra cui assume rilievo la volontà di eliminare o di attenuare le conseguenze dannose del reato (Sez. 1, n. 486 del 25/09/2015, dep. 2016 quale espressione della serietà della revisione critica del condannato (Sez. 5, n. 11331 del 10/12/2019, dep. 2020) con la necessità che il giudice valuti, ai fini del giudizio in ordine alla sussistenza o meno del requisito del ravvedimento, condotte dirette a rimuovere le conseguenze del reato (Sez. 1, n. 12782 del 24/02/2021).
Con riferimento ai collaboratori di giustizia si è osservato che la facoltà di ammetterli al beneficio, anche in deroga alle disposizioni vigenti, secondo parte della giurisprudenza di legittimità, riguarda solo le condizioni di ammissibilità, ma non si estende al requisito dell’emenda degli stessi e alle finalità di conseguire la loro stabile rieducazione (Sez. 1, n. 3312 del 14/01/2020; Sez. 1, n. 37330 del 26/09/2007).
Secondo detta impostazione, nonostante la specifica agevolazione prevista dalla legge, la concedibilità del beneficio, in relazione ai collaboratori di giustizia, non si sottrae al criterio della valutazione discrezionale da parte del giudice, che deve riguardare, al di là dell’indefettibile accertamento delle condizioni soggettive di ammissibilità, l’opportunità del trattamento alternativo che, come per ogni altra misura della stessa categoria, deve concernere le premesse meritorie e l’attingibilità concreta del beneficio, in relazione alla personalità del condannato.
In altri termini, pur se la richiesta provenga da persona ammessa a speciale programma di protezione, la facoltà di ammettere al beneficio detti soggetti, anche in deroga alle disposizioni vigenti, riguarda soltanto le limitazioni in tema di condizioni di ammissibilità, ma non si estende ai presupposti dell’emenda e alle finalità di conseguire la stabile rieducazione, i quali sono definiti in base agli stessi parametri utilizzati per i condannati non collaboranti.
Nella valutazione da compiere, in relazione ai collaboratori di giustizia, non può assumere valore determinante la verifica della assenza di iniziative risarcitorie nei confronti della vittima.
Invero, secondo detto indirizzo, l’art. 16-noníes cit., nel prevedere che la liberazione condizionale possa essere riconosciuta al collaboratore anche in deroga alle vigenti disposizioni, ivi comprese quelle relative ai limiti di pena di cui all’art. 176 cod. pen., si riferisce, non solo ai limiti di pena, espressamente richiamati, ma anche alla generale previsione di cui al comma quarto della citata disposizione, che subordina la concessione della liberazione condizionale (ordinaria) all’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato (Sez. 1, n. 42357 del 11/09/2019; Sez. 1, n. 19854 del 22/06/2020).
In ogni caso, la Suprema afferma (tra le altre, Sez. 1, n. 17831 del 20/04/2021) che, ai fini della concessione della liberazione condizionale chiesta da un collaboratore di giustizia, ai sensi dell’art. art. 16-nonies, d. I. n. 8 del 15 gennaio 1991, il giudice, nel valutare il “sicuro ravvedimento” dell’istante, deve tener conto di indici sintomatici quali l’ampiezza dell’arco temporale nel quale si è manifestato il rapporto collaborativo, i rapporti con i familiari e il personale giudiziario, lo svolgimento di attività lavorativa, di studio o sociali, successive alla collaborazione, non potendo assumere rilievo determinante la sola assenza di iniziative risarcitorie nei confronti delle vittime dei reati commessi.
Quindi, elementi sintomatici del percorso rieducativo che devono essere considerati, tra l’altro, è annoverato lo svolgimento di attività sociali, allo scopo di accertare se sia stata compiuta la revisione critica della sua vita pregressa e sia giunta a maturazione la sua reale ispirazione al riscatto personale (Sez. 1, 9887 de1.01/02/2007; Sez. 1, n. 19854 del 22/06/2020; Sez. 1, n. 17831 del 20/04/2021).
Nella valutazione della concedibilità della liberazione condizionale, in relazione al collaboratore di giustizia, pertanto, il mancato adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato può essere preso in esame quale possibile dimostrazione di un ravvedimento non ancora sicuro e completo, ma non può essere ritenuto, di per sé, dato ostativo, diversamente da quanto è previsto per il beneficio da concedere a un condannato non collaborante, secondo l’esplicito contenuto dell’art. 176, comma quarto, cod. pen. (in tale senso anche Sez. 1, n. 98152 del 15/02/2008).
