Si alzano sempre di più i toni dello scontro tra politica e magistratura.
Ogni dichiarazione, ogni riflessione, ogni iniziativa di una delle parti provoca reazioni sempre più aspre dell’altra.
Che siano il costituzionalismo multilivello, con i suoi riflessi nel rapporto tra l’ordinamento interno e quelli delle istituzioni internazionali dei quali l’Italia è parte, la separazione delle carriere, le ipotesi di modifica dell’attuale ordinamento disciplinare della magistratura (nel senso dell’ampliamento) o del codice penale di rito (nel senso della restrizione di mezzi di ricerca delle prove), le dichiarazioni pubbliche di esponenti dell’una e dell’altra parte, le esternazioni private in chat ristrette, ognuno di questi ambiti non fa che aumentare la contrapposizione.
In questo pessimo clima si agitano – ma non è una novità – teste pensanti e teste pesanti, ideazioni e pensieri colti e strutturati e semplificazioni elementari da bar.
Terzultima Fermata ha scritto più volte di questa assortita fenomenologia e non serve ripetere ciò che è stato detto su questo o quel tema.
Si aggiungono quindi poche considerazioni, nella certezza della loro assoluta inutilità e della loro massima opinabilità.
Si inizia dal lato della magistratura.
I suoi esponenti più prestigiosi lamentano indistintamente l’assedio cui è sottoposto il potere giudiziario e i continui sconfinamenti della controparte negli ambiti di sua competenza.
Dando per buona questa tesi, resta comunque un quantum assai rilevante di soggettivo e indefinito.
Di quali confini si parla e chi li ha fissati? Sono quelli tracciati dalla Costituzione formale o materiale? Quelli marchiati a fuoco dalla stagione di Mani Pulite e dagli innumerevoli straripamenti che la caratterizzarono o quelli della legalità come intesa dalla Costituzione in un complesso, delicato, vulnerabile ma comunque prezioso ed equilibrato contrappeso tra i tre poteri fondamentali dello Stato?
E se parliamo di autonomia ed indipendenza e le mettiamo insieme alla libertà di espressione del pensiero che spetta ai magistrati come a qualunque altro individuo che vive sotto la legge italiana, quale declinazione bisognerà assegnarle? Davvero può spingersi fino all’obiezione di coscienza o addirittura alla ribellione contro la lex parlamentaria o deve fermarsi prima proprio per mantenere intatte le due caratteristiche senza le quali un giudice si tramuta in un non giudice? Autonomia ed indipendenza sono solo prerogative o anche doveri?
Spostiamoci dal lato della politica.
Quando si trasforma in istituzione può rimanere solo politica? Il suo linguaggio, la sua ideazione, i suoi prodotti possono essere governati solo dalla ricerca del consenso o dovrebbero allargare i loro orizzonti verso il miglior interesse della comunità? Il suo atteggiamento verso i controlli di legalità può essere all’insegna dell’insofferenza o dell’intolleranza oppure dovrebbe considerarli come parte integrante di una democrazia matura?
Infine, per ambo le parti.
Possono continuare a credersi onnipotenti e ad agire sempre e solo come tali? Non sarebbe ora che la magistratura cominciasse ad accettare l’idea di non essere essa e solo essa detentrice dell’etica pubblica in virtù di un mandato autoassegnatasi? Non sarebbe segno di lucidità capire la natura transeunte, sebbene resistente da tre decenni, della sua indebita centralità nella vita pubblica italiana? E non sarebbe ora che la politica, soprattutto questa di ora che al potere c’è da poco, comprendesse che ci rimarrà solo se si proporrà come forza tranquilla e non rissosa, dialogante e non prevaricatrice, con uno sguardo di lungo respiro e non asfittico e tarato sull’istante?
Considerazioni opinabili e domande inutili perché nessuno risponderà.
Ma questo non impedisce di metterle agli atti.
Del resto, come diceva qualcuno, qualsiasi partito che prenda il merito di aver fatto piovere non deve sorprendersi se i suoi oppositori lo accusano per la precedente siccità.
