Occupazione abusiva di suolo demaniale: la buona fede scusante non può discendere da un comportamento inerte della pubblica amministrazione (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 35122/2024, udienza del 12 giugno 2024, ha chiarito che, in tema di contravvenzioni, la buona fede scusante sussiste nel solo caso in cui la mancata consapevolezza dell’illiceità del fatto deriva da un elemento positivo esterno che ha indotto l’agente in errore incolpevole, dovendosi, invece, escludere la rilevanza del “fatto negativo”, costituito da mero comportamento inerte della pubblica amministrazione.

È necessario distinguere la scusabilità dell’errore di diritto dalla buona fede nelle contravvenzioni.

Con riferimento alla scusabilità dell’errore di diritto, non si può prescindere da Corte cost., sent. n. 364 del 1988, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 cod. pen, nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile.

Secondo il Giudice delle leggi, il comma primo dell’art. 27 Cost. (“La responsabilità penale è personale”) – interpretato in relazione al comma terzo dello stesso articolo ed agli artt. 2, 3, commi primo e secondo, 73, comma terzo, e 25, comma secondo, Cost. – non soltanto richiede la “colpevolezza” dell’agente rispetto agli elementi più significativi della fattispecie tipica (e, cioè, una relazione psichica tra il soggetto e il fatto), ma anche la “effettiva possibilità di conoscere la legge penale” (e, cioè, un rapporto tra soggetto e legge), “possibilità” che rappresenta ulteriore necessario presupposto della “rimproverabilità” dell’agente e, dunque, della responsabilità penale.

Consegue che l’art. 5 cod. pen., disconoscendo – secondo il diritto all’epoca vivente – ogni collegamento tra l’obbligo penalmente sanzionato e la sua “riconoscibilità” ed equiparando all’ignoranza evitabile della legge penale l’ignoranza non colpevole, e, pertanto, inevitabile, viola lo spirito dell’intera Costituzione ed i suoi essenziali principi ispiratori, che pongono la persona umana al vertice della scala dei valori. Pertanto, afferma il Giudice delle leggi, l’art. 5 cod. pen. è costituzionalmente illegittimo – per contrasto con i parametri citati – nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza della legge penale l’ignoranza inevitabile. Al fine di qualificare l’ignoranza della legge penale (o l’errore sul divieto) come inevitabile, occorre far riferimento a criteri oggettivi, cd. “puri” o “misti” (obiettiva oscurità del testo, gravi contrasti interpretativi giurisprudenziali, “assicurazioni erronee”, ecc.), tenendo conto, peraltro, di quelle particolari condizioni e conoscenze del singolo soggetto, tali da rendere l’ignoranza inescusabile, pur in presenza di un generalizzato errore sul divieto.

Non può comunque ravvisarsi ignoranza inevitabile allorché l’agente si rappresenti la possibilità che il fatto sia antigiuridico, salva l’ipotesi di dubbio oggettivamente irrisolvibile (attinente, cioè, alla necessità di agire o non agire per evitare la sanzione).

Deve, invece, di regola ritenersi che l’ignoranza sia inevitabile allorché l’assenza di dubbi sull’illiceità del fatto dipenda dalla personale non colpevole carenza di socializzazione del soggetto.

Vale la pena sottolineare questo passaggio: non può comunque ravvisarsi ignoranza inevitabile allorché l’agente si rappresenti la possibilità che il fatto sia antigiuridico, salva l’ipotesi di dubbio oggettivamente irrisolvibile (attinente, cioè, alla necessità di agire o non agire per evitare la sanzione).

Tale principio è stato ripreso da Sez. U, n. 16153 del 18/01/2024, Clemente, che ha ribadito che l’incertezza derivante da contrastanti orientamenti giurisprudenziali nell’interpretazione e nell’applicazione di una norma non abilita, da sola, ad invocare la condizione soggettiva d’ignoranza inevitabile della legge penale, atteso che il dubbio circa la liceità o meno di una condotta, ontologicamente inidoneo ad escludere la consapevolezza dell’illiceità della medesima, deve indurre l’agente ad un atteggiamento di cautela, fino all’astensione dall’azione (nello stesso senso, Sez. 5, n. 2506 del 24/11/2016; Sez. 2, n. 46669 del 23/11/2011,; Sez. 6, n. 6991 del 25/01/2011; Sez. 3, n. 28397 del 16/04/2004, secondo cui la esclusione di colpevolezza per errore di diritto dipendente da ignoranza inevitabile della legge penale può essere giustificata da un complessivo e pacifico orientamento giurisprudenziale che abbia indotto nell’agente la ragionevole conclusione della correttezza della propria interpretazione normativa; ma in caso di giurisprudenza non conforme o di oscurità del dettato normativo sulla regola di condotta da seguire non è possibile invocare la condizione soggettiva di ignoranza inevitabile, atteso che in caso di dubbio si determina l’obbligo di astensione dall’intervento e dell’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la corretta conoscenza della legislazione vigente in materia).

Prima ancora, Sez. U, n. 8154 del 10/06/1994, Calzetta, Rv. 197885 – 01, all’indomani della pronuncia del Giudice delle leggi, aveva stabilito quali fossero i limiti della inevitabilità dell’ignoranza incolpevole affermando che per il comune cittadino tale condizione è sussistente ogni qualvolta egli abbia assolto, con il criterio dell’ordinaria diligenza, al cosiddetto “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento, per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia.

Tale obbligo è particolarmente rigoroso per tutti coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali rispondono dell’illecito anche in virtù di una “culpa levis” nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per la scusabilità dell’ignoranza, occorre, cioè, che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto. Più in generale, con riferimento alla buona fede nelle contravvenzioni, è stato più volte affermato il principio secondo il quale la cosiddetta “buona fede” è configurabile ove la mancata coscienza dell’illiceità del fatto derivi non dall’ignoranza dalla legge, ma da un elemento positivo e cioè da una circostanza che induce nella convinzione della sua liceità, come un provvedimento dell’autorità amministrativa, una precedente giurisprudenza assolutoria o contraddittoria, una equivoca formulazione del testo della norma (Sez. 3, n. 29080 del 19/03/2015; Sez. 3, n. 49910 del 04/11/2009).

È stata così esclusa la rilevanza, ai fini della scusabilità dell’errore, del “fatto negativo”, quale la mancata rilevazione, da parte degli organi di vigilanza e controllo, di irregolarità da sanare (Sez. 3, n. 42021 del 18/07/2014; Sez. 3, n. 11170 del 03/10/1984).

Nel caso di specie, il ricorrente ha perseverato nella propria condotta nonostante tre sentenze della Corte di cassazione che, benché pronunciate nella fase cautelare, avevano espressamente affermato la illegittimità della sua occupazione demaniale (Sez. 3, n. 15676 del 13/04/2022; Sez. 4, n. 10218 del 07/02/2020; Sez. 3, n. 25993 del 06/03/2019).

Peraltro, Sez. 3, n. 15676 del 2022, aveva anche preso posizione sull’elemento soggettivo con parole che è opportuno riprendere e ribadire in questa sede: «[p]arimenti priva di pregio deve ritenersi la doglianza difensiva secondo cui, in ogni caso, nella fattispecie concreta difetterebbe l’elemento soggettivo in capo all’indagato e ciò in quanto il coacervo di norme succedutesi nel tempo, unito all’atteggiamento del tutto acquiescente tenuto nei suoi confronti dall’Autorità concedente (naturale interlocutore del concessionario) avrebbero generato nel Galli un legittimo affidamento circa la liceità della propria condotta.

Sul punto basti ricordare che, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 24.3.1998, l’errore di diritto scusabile è configurabile solo se incolpevole a cagione della sua inevitabilità.

Orbene, è insegnamento costante della Corte di cassazione quello per cui il “dovere di informazione”, attraverso l’espletamento di qualsiasi utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente in materia, è particolarmente rigoroso per coloro che svolgono professionalmente una determinata attività, i quali dunque rispondono dell’illecito anche in virtù di una culpa levis nello svolgimento dell’indagine giuridica. Per l’affermazione della scusabilità dell’ignoranza, occorre dunque che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale, l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e, conseguentemente, della liceità del comportamento tenuto (S.U., n.8154 del 10/06/1994 – dep. 18/07/1994, Calzetta; Sez. 1, n. 47712 del 15/07/2015 – dep. 02/12/2015).

Posto che nelle fattispecie contravvenzionali la buona fede può acquistare giuridica rilevanza solo a condizione che si traduca in mancanza di coscienza dell’illiceità del fatto e derivi da un elemento positivo estraneo all’agente, consistente in una circostanza che induca alla convinzione della liceità del comportamento tenuto, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che la prova della sussistenza di tale elemento deve essere fornita dall’imputato, unitamente alla dimostrazione di avere compiuto tutto quanto poteva per osservare la norma violata (Sez. 4, n. 9165 del 05/02/2015, dep. 02/03/2015).

Orbene, alla luce degli insegnamenti giurisprudenziali poc’anzi richiamati deve ritenersi non sufficiente, ai fini dell’esclusione dell’elemento soggettivo, appellarsi ad un mero “atteggiamento acquiescente” tenuto dall’Amministrazione nei confronti dell’indagato, atteso che in assenza di un fatto positivo dell’autorità amministrativa, idoneo a ingenerare uno scusabile convincimento di liceità del comportamento, la buona fede non può essere desunta da un mero fatto negativo, quale, appunto l’acquiescenza della p.a. nei confronti dell’indagato. In altri termini, la doglianza deve ritenersi priva di pregio in quanto, attraverso l’odierno ricorso, il ricorrente manca di fornire la prova di quel comportamento positivo, riconducibile agli organi amministrativi, dal quale egli abbia tratto il convincimento della correttezza della propria interpretazione normativa.

Parimenti, il ricorrente, soggetto professionalmente impegnato nella gestione di stabilimenti balneari, manca di fornire la prova di aver compiuto tutto quanto poteva per osservare la disposizione violata.

Del resto, come si è già avuto modo di dimostrare, è sempre stato pacifico a livello giurisprudenziale che le proroghe ex lege introdotte con il D.L. n.194 del 2009, convertito in L. 26 febbraio 2010, n. 25, e successive modifiche, si applicano solo alle concessioni “nuove”, ossia successive al d.l. stesso».