Divieto di reformatio in peius: riguarda il dispositivo, non la motivazione (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 2^, sentenza n. 34518/2024, udienza del 10 maggio 2024, ha chiarito che il divieto di reformatio in peius riguarda il dispositivo della pronuncia impugnata e non anche le motivazioni poste a sostegno dal giudice di primo grado, che, di certo, non vincolano il giudice di appello, sempre che la nuova motivazione non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono.

In fatto

La Corte di appello, con sentenza del 7 luglio 2023, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa dal Tribunale appellata da MDF, dichiarava non doversi procedere nei confronti del predetto imputato in relazione ai reati di cui ai capi a), b), c), per intervenuta prescrizione, e per l’effetto rideterminava la pena in mesi 2 e giorni 20 di reclusione e 250 euro di multa per i capi d) ed e), contestati rispettivamente per i delitti di cui agli artt. 633, 639-bis cod. pen. e 632, 639-bis cod. pen.

Ricorso per cassazione

Avverso la suddetta decisione ricorre per cassazione MDF, a mezzo del proprio difensore, formulando tre distinti motivi con i quali chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

Per ciò che qui interessa, con il terzo motivo ha lamentato la violazione di legge in relazione all’art. 31, comma 9, D.P.R. n.380/2001, in forza del quale la sospensione condizionale della pena era stata subordinata alla demolizione dell’opera abusiva ed alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi entro tre mesi dal passaggio in giudicato della sentenza.

Il ricorrente evidenzia che la Corte di appello avrebbe modificato in termini sostanziali le motivazioni in base alle quali confermare la statuizione relativa alla sospensione condizionale della pena, che veniva, di fatto, subordinata in forza di un altro motivo, ossia perché il ricorrente aveva già fruito in precedenza del beneficio di cui all’art. 163 cod. pen., non tenendo conto del fatto che l’obbligo di demolizione in primo grado era stato disposto in ragione dell’affermazione di responsabilità per le violazioni urbanistiche e paesaggistiche, poi dichiarate prescritte in appello.

Decisione della Corte di cassazione

Appare utile richiamare alcuni precedenti della Suprema Corte che consentono di chiarire meglio l’ambito di giudizio del giudice di appello, nei casi in cui manchi l’impugnazione del PM.

Un risalente precedente afferma che: «Il giudice d’appello non è vincolato agli argomenti dialettici del primo giudizio per modo che, anche nuovi elementi favorevoli all’imputato possono essere neutralizzati da una diversa valutazione degli elementi a lui sfavorevoli e ciò perché sussiste il divieto delle reformatio in peius solo per le parti dispositive della pronuncia e non anche per la motivazione» (così Sez.5, n.728 del 07/05/1971).

Più di recente le Sez. U., n.31617 del 26/06/2015, Lucci, Rv. 264438-01, hanno affermato il principio, che indirettamente può rilevare nel caso in esame, secondo cui: «L’attribuzione all’esito del giudizio di appello, pur in assenza di una richiesta del pubblico ministero, al fatto contestato di una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione non determina la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen., neanche per effetto di una lettura della disposizione alla luce dell’art. 111, secondo comma, Cost., e dell’art. 6 della Convenzione EDU come interpretato dalla Corte europea, qualora la nuova definizione del reato fosse nota o comunque prevedibile per l’imputato e non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono”.

Nell’affermare il principio indicato, la Corte ha escluso la violazione dell’art. 521 cod. proc. pen.

in una fattispecie in cui l’imputato era stato condannato in primo grado per il reato di concussione e in appello per quello di corruzione).

Ed ancora, sotto un ulteriore angolo visuale, la Suprema Corte ha sostenuto che: «Il giudice di appello, pur in difetto di gravame del pubblico ministero, può dare al fatto una diversa e più grave qualificazione giuridica, ove la questione sia strettamente connessa ad un capo o ad un punto della sentenza che abbia costituito oggetto dell’impugnazione, senza per questo violare il divieto di “reformatio in peius”, che investe solo il trattamento sanzionatorio in senso stretto, e, dunque, la specie e la quantità della pena”.

Fattispecie, questa, relativa a sentenza di appello che, riqualificando il delitto di cui all’art. 570, comma primo, cod. pen. in quello, procedibile di ufficio, di cui all’art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., aveva “neutralizzato” l’intervenuta remissione di querela).

Si deve dunque affermare, anche alla luce della giurisprudenza di legittimità richiamata, che il ricorrente non può lamentare alcuna violazione del divieto di reformatio in peius, perché tale limite riguarda il dispositivo della pronuncia impugnata e non anche le motivazioni poste a sostegno dal giudice di primo grado, che, di certo, non vincolano il giudice di appello, sempreché la nuova motivazione non determini in concreto una lesione dei diritti della difesa derivante dai profili di novità che da quel mutamento scaturiscono.

Nel caso di specie, le ragioni addotte dalla Corte di appello, ossia l’applicazione dell’art. 165, comma secondo, cod. pen. in forza di una precedente concessione della sospensione condizionale della pena, non costituiscono un profilo giuridico non conosciuto o del tutto imprevedibile per il ricorrente, che, in ogni caso, poteva eccepire in sede di legittimità l’eventuale erronea applicazione della norma citata.

Il motivo di ricorso è perciò infondato perché non ricorre alcuna violazione di legge nella decisione impugnata.