La Cassazione a sezioni unite con la sentenza numero 36764/2024 ha stabilito che in tema di trattamento di dati personali, la richiesta di oscuramento delle generalità e degli altri dati identificativi dell’interessato riportati sulla sentenza o altro provvedimento, di cui all’art. 52, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, deve essere fondata su “motivi legittimi”, la cui valutazione impone un equilibrato bilanciamento tra le esigenze di riservatezza del singolo e quelle di pubblicità della sentenza.
In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che, a fronte della regola generale della diffusione integrale del provvedimento, è onere del soggetto interessato prospettare le specifiche ragioni che giustifichino l’oscuramento dei dati, indicando le negative conseguenze che deriverebbero su vari aspetti della sua vita sociale e di relazione, ove la richiesta non fosse accolta.
Occorre premettere che la protezione della persona fisica in sede di trattamento dei dati di carattere personale costituisce un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione e dall’ordinamento europeo (artt. 7 e 8, paragrafo 1, della Carta di Nizza) e dall’art. 16, paragrafo 1, del T.F.U.E., nonché, nel dato convenzionale, dall’art. 8 della CEDU.
Il riferimento normativo euro-unitario è costituito dal Regolamento U.E 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento e la libera circolazione dei dati personali (cd. General Data Protection Regulation – GDPR), la cui base giuridica si ritrova nell’art. 16 del T.U.E., che attribuisce alla competenza europea la materia in oggetto, affidando alla procedura legislativa ordinaria la relativa disciplina. 22 c2,1.
Il GDPR, abrogando la Direttiva 95/46/CE2, ha dettato una nuova disciplina, pur attribuendo agli Stati nazionali la facoltà di prevedere limitazioni ai principi in essa contenuti, a determinati casi e condizioni.
Per l’art. 4, comma 1, n. 2) del GDPR, costituisce “trattamento” «qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione».
L’art. 5 precisa che i dati personali sono trattati in modo lecito, corretto e trasparente nei confronti dell’interessato (secondo i principi di «liceità, correttezza e trasparenza»), seguendo la regola del minimo mezzo nell’acquisizione e nella conservazione.
Affinché il trattamento dei dati possa essere considerato lecito, il successivo art. 6, oltre al consenso espresso dall’interessato, indica al comma 1, lett. e), il caso in cui il trattamento sia necessario per l’esecuzione di un compito di interesse pubblico o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento.
Si tratta di una disposizione che è completata dal secondo periodo del comma 3 del medesimo art. 6, ove si precisa che la finalità del trattamento è determinata in tale base giuridica o, per quanto riguarda il trattamento di cui al paragrafo 1, lett. e), quando è necessaria per l’esecuzione di un compito svolto nel pubblico interesse o connesso all’esercizio di pubblici poteri di cui è investito il titolare del trattamento.
Ai sensi dell’art. 9 del Regolamento, è altresì vietato, salvo le deroghe contenute nella stessa disposizione, trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona. In particolare, nell’ambito delle deroghe, il trattamento è lecito quando è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali (art. 9, comma 2, lett. f) 19.
In tale contesto si colloca il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.
L’entrata in vigore del GDPR, direttamente applicabile in tutti gli Stati membri dal 25 maggio 2018, ha reso necessario l’adeguamento del già vigente Codice in materia di protezione dei dati personali.
Il legislatore nazionale non ha inteso abrogare il predetto Codice, ma è intervenuto su di esso in modo strutturale mediante il d. Igs. n. 101 del 2018 abrogando le disposizioni divenute incompatibili e adeguando il restante testo al contenuto del Regolamento, attraverso l’inserimento di nuove disposizioni o la modifica di quelle previgenti.
È stato già osservato come la complessiva disciplina può esaminarsi in un duplice senso:
il primo attiene al trattamento dei dati personali da parte degli organi di giustizia;
il secondo riguarda, invece, la divulgazione all’esterno, anche per scopi di informazione giuridica, delle pronunce giudiziarie.
Quanto al primo profilo, nella disciplina previgente gli artt. 46 e 47 del Codice in materia di protezione dei dati personali costituivano i riferimenti normativi essenziali.
A seguito delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 101 del 2018, l’art. 47 è stato abrogato e il suo contenuto è confluito nell’art. 2-duodecies del d.lgs. n. 196 del 2003.
Quest’ultima disposizione stabilisce ora che «i diritti e gli obblighi di cui agli artt. da 12 a 22 e 34 del Regolamento sono disciplinati nei limiti e con le modalità previste dalle disposizioni di legge o di regolamento che regolano tali procedimenti»; il comma 4 di tale articolo precisa, in particolare, che i trattamenti effettuati per “ragioni di giustizia” sono quelli «correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie», nonché «i trattamenti effettuati in materia di trattamento giuridico ed economico del personale di magistratura, nonché i trattamenti svolti nell’ambito delle attività ispettive su uffici giudiziari. Le ragioni di giustizia non ricorrono per l’ordinaria attività amministrativo-gestionale di personale, mezzi, strutture, quando non è pregiudicata la segretezza di atti direttamente connessi alla trattazione giudiziaria di procedimenti».
Quanto invece alla divulgazione all’esterno, anche per scopi di informazione giuridica, delle pronunce giudiziarie, è stato già evidenziato in dottrina in modo condivisibile come nell’ordinamento italiano la tutela della riservatezza in ambito giudiziario non riguardi gli atti del processo, che devono essere sempre completi dei dati identificativi delle parti, ma la divulgazione delle decisioni una volta depositate in cancelleria.
Gli artt. 51 e 52 costituiscono la base legale per la liceità del trattamento in tema di informazione e informatica giuridica e delle limitazioni correlate anche alla salvaguardia dell’indipendenza della magistratura e dei procedimenti giudiziari (art. 23, par. 1, lett. f) del Regolamento (UE) 2016/679, di cui si è detto).
L’art. 51, rimasto immutato a seguito del GDPR e riguardante specificamente la diffusione dei provvedimenti giudiziari, dispone che «L.] i dati identificativi delle questioni pendenti dinanzi all’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado sono resi accessibili a chi vi abbia interesse anche mediante reti di comunicazione elettronica, ivi compreso il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet»; il secondo comma della norma in esame stabilisce che «[l]e sentenze e le altre decisioni dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado depositate in cancelleria o segreteria sono rese accessibili anche attraverso il sistema informativo e il sito istituzionale della medesima autorità nella rete Internet, osservando le cautele previste dal presente capo».
Il «presente capo» a cui la norma fa riferimento è costituito dal successivo art. 52, parzialmente innovato dal d.lgs. n. 101 del 2018, il quale stabilisce i limiti per la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e altri provvedimenti giurisdizionali.
Esso trova applicazione non solo ai casi di divulgazione per finalità di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici, bensì, in ragione della intervenuta soppressione di tale riferimento, prima contenuto nel suo disposto, a ogni fattispecie di riproduzione di pronunce giudiziarie.
La norma fissa una regola generale e alcune deroghe.
Il principio generale è quello per cui è assicurata la conoscenza integrale della sentenza a richiesta, fatte salve le eccezioni previste dalla stessa disposizione.
La regola, in ragione del comma 7 del citato art. 52, è la diffusione del contenuto integrale di sentenze e altri provvedimenti giurisdizionali («fuori dei casi indicati nel presente articolo è ammessa la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali»).
La deroga è quella sancita dal comma 1, secondo cui l’interessato può chiedere per motivi legittimi che sia apposta, a cura della medesima cancelleria o segreteria, sull’originale della sentenza o del provvedimento, un’annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione della sentenza (o provvedimento) in qualsiasi forma, l’indicazione delle generalità e di altri dati identificativi del medesimo interessato riportati sulla sentenza o provvedimento (fermo restando quanto previsto dalle disposizioni concernenti la redazione e il contenuto di sentenze e di altri provvedimenti giurisdizionali dell’autorità giudiziaria di ogni ordine e grado).
L’ulteriore deroga alla “regola” è quella contenuta dal comma 2 della norma in esame che, oltre a stabilire che sulla richiesta di oscuramento provvede in calce con decreto, senza ulteriori formalità, l’autorità che pronuncia la sentenza o adotta il provvedimento, attribuisce alla medesima autorità giudiziaria il potere di disporre d’ufficio che sia apposta l’annotazione di cui al comma 1, a tutela dei diritti o della dignità degli interessati (fra le altre, cfr., Sez. U. n. 26387 del 19/11/2020, non massimata sul punto, in tema di atti vessatori in danno della integrità psico fisica e della sfera professionale e religiosa conseguenti alla ritenuta inidoneità a svolgere i compiti di cappellano militare; Sez. 5, n. 22601 del 03/05/2020, con riguardo a fatti di sfruttamento della prostituzione, tratta di persone, riduzione in schiavitù).
Quanto al potere officioso di “omissare” i dati, il comma 2 costituisce una norma in bianco posta a presidio dei diritti e della dignità degli interessati; il rinvio è alla disciplina in materia di privacy, e, in particolare, al già citato art. 9 del Regolamento (UE) 2016/679 per cui sono soggetti a oscuramento obbligatorio quei dati che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché i dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona.
Ciò consente di cogliere il senso e la portata dell’art.2 septies del d. Igs. n. 196 del 2003, che, non casualmente, vieta, anche in caso di trattamento lecito, la diffusione di dati sensibili costituiti da dati “genetici, biometrici e relativi alla salute”.
L’art. 4 del Regolamento U.E. precisa che sono: – dati genetici quelli personali relativi alle caratteristiche genetiche ereditarie o acquisite di una persona fisica in grado di fornire informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica, quali risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della persona fisica;
– dati biometrici quelli personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico e relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici;
– dati relativi alla salute quelli attinenti alla salute fisica o mentale di una persona, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute. Il comma 5 dell’art. 52 cit. prevede, infine, un’ipotesi di ulteriore oscuramento ex lege volta a tutelare, oltre alle persone offese da atti di violenza sessuale (come prevede il rinvio all’art. 734 -bis cod. pen.), i soggetti minorenni, a qualsiasi titolo coinvolti in procedimenti giudiziari, e le parti di procedimenti in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone.
Tanto premesso, nel caso esaminato non ricorrono le condizioni per disporre l’oscuramento dei dati personali ex lege, non trattandosi di un procedimento in materia di rapporti di famiglia e di stato delle persone ovvero in cui può desumersi anche indirettamente l’identità di minori.
Non sussistono neppure le condizioni per disporre l’oscuramento d’ufficio in ragione della sensibilità dei dati.
Il tema attiene, invece, alla “legittimità dei motivi” posti a fondamento della richiesta di oscuramento dei dati, alla loro consistenza e alla loro portata.
La norma non specifica quali siano i motivi: si tratta di una clausola generale che deve essere interpretata e riempita di contenuti in ragione dei principi generali e della esigenza di tutela dei diritti fondamentali.
Si è già affermato nella giurisprudenza della cassazione che rilevanti indicazioni si traggono, quanto ai “motivi legittimi“, dalle linee guida dettate dal Garante della privacy il 2 dicembre 2010, “in materia di trattamento di dati personali nella riproduzione di provvedimenti giurisdizionali per finalità di informazione giuridica“, in cui, con specifico riferimento alla c.d. “procedura di anonimizzazione dei provvedimenti giurisdizionali”, si fa riferimento alla “particolare natura dei dati contenuti nel provvedimento (ad esempio, dati sensibili)“, ovvero alla “delicatezza della vicenda oggetto del giudizio”.
Con riferimento alla “delicatezza” della vicenda, essa deve essere ravvisata, secondo lo stesso Garante, nelle “negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato (ad esempio, in ambito familiare o lavorativo)“.
(In senso conforme si è espressa la giurisprudenza della Suprema Corte, cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 11959 del 15/02/2017).
Un sintagma, quello dei motivi legittimi, che impone un bilanciamento tra l’esigenza di anonimizzare, in ragione della protezione della persona fisica e dei suoi diritti fondamentali, e quella di non limitare, cancellare, impedire la conoscenza sostanziale e integrale del provvedimento e, dunque – come è stato acutamente osservato in dottrina – “la scienza“.
L’esigenza di applicare la disciplina della privacy deve, inoltre, contemperarsi con le ragioni sottese alla pubblicità della sentenza, le quali attengono ad un valore costituzionale, quello, cioè, della conoscibilità e dell’apprezzamento del prodotto integrale dell’attività giudiziale.
Un giudizio di relazione tra due poli che il giudice è tenuto a compiere in concreto, di volta in volta, in ragione della specificità della prospettazione che il soggetto interessato fornisce, della valenza dell’interesse all’oscuramento dei dati, delle ragioni per cui la vicenda riveste “particolare delicatezza” e, in particolare, di quelle per cui, se l’oscuramento non fosse disposto, si produrrebbero negative conseguenze sui vari aspetti della vita sociale e di relazione dell’interessato, come ad esempio, in ambito familiare o lavorativo.
Un onere di specificazione del motivo che giustifica l’oscuramento dei dati in quanto prevalente rispetto alla regola generale della diffusione integrale del provvedimento.
