Estinzione del reato per condotte riparatorie: lo spartiacque dell’apertura del dibattimento (Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 5 con la sentenza numero 41899 depositata il 14 novembre 2024 è intervenuta sulla estinzione del reato per condotta riparatoria intervenuta dopo l’apertura del dibattimento con una offerta banco judicis.

Fatto

Il Tribunale di Verona, in composizione monocratica ha dichiarato “estinto il processo per esito positivo delle condotte riparatorie” nei confronti di M.E., imputata del delitto di cui all’art. 81 cpv., 610 cod. pen. e della contravvenzione di cui all’art. 81 cpv.,660 cod. pen., a lei ascritte in danno di LG.

Il decidente, dichiarato aperto il dibattimento e pur in presenza dell’opposizione del pubblico ministero e della difesa della costituita parte civile, dato atto della contestuale consegna, da parte del difensore dell’imputata, di un assegno circolare di 400 euro a mani del patrocinatore di parte civile, ha emesso sentenza ai sensi degli artt. 162 ter cod. pen., 129 e 531 cod. proc. pen.

Ricorre il Procuratore Generale.

Decisione

Il primo comma dell’art. 162 ter cod. pen. stabilisce che nei casi di procedibilità a querela soggetta a remissione – come per i reati di violenza privata e di molestia e disturbo alle persone, oggetto di contestazione all’imputata, a seguito della riforma introdotta dal D. Lgs. n. 150 del 2022 – il giudice è facoltizzato a dichiararne l’estinzione, sentite le parti e la persona offesa, quando l’imputato abbia proceduto a riparare interamente il danno “entro il termine massimo della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado“.

E’ prevista una deroga allo sbarramento temporale, così sancito, dal secondo comma della norma medesima, che consente il perfezionamento dell’integrale riparazione del danno, ai fini della produzione della causa estintiva, anche in costanza del dibattimento, che può essere autorizzato dal giudice quando l’imputato “dimostra di non aver potuto adempiere, per fatto a lui non addebitabile, entro il termine di cui al primo comma“; in tal caso il giudice fissa un “ulteriore termine, non superiore a sei mesi, per provvedere al pagamento, anche in forma rateale, di quanto dovuto a titolo di risarcimento“.

Il termine ultimo, di regola costituito dalla dichiarazione di apertura del dibattimento, è previsto in base al tenore globale della disposizione a pena di decadenza ed esige che, a tale momento, sia già stata formulata dall’imputato una congrua e definita proposta riparatoria (anche nelle forme dell’offerta reale di cui all’art. 1208 cod. civ., quand’anche non accettata dalla persona offesa), come tale valutata dall’organo giudicante; la delimitazione temporale è valicabile soltanto nel caso in cui l’imputato, per cause a lui non imputabili, dimostri di essere stato impossibilitato a darvi seguito; l’istituto possiede finalità eminentemente deflattive, il cui effettivo conseguimento, che non è condizionato alla conclusione di accordi tra l’imputato e la persona offesa o all’esercizio di un diritto potestativo attribuito a quest’ultima, è affidato al prudente apprezzamento del giudice (cfr, anche ampiamente in motivazione, sez. 5, n. 7362 del 14/11/2023, P., Rv. 286078, che a sua volta Cassazione sez. 3, n. 16674 del 02/03/2021, V., Rv. 281204).

Se ciò è vero, non è tuttavia condivisibile che l’esercizio della potestà del giudice di dichiarare l’estinzione del reato per condotta riparatoria intervenuta prima del dibattimento sia subordinato alla sequela della procedura prevista dall’art. 469 cod. proc. pen., che riguarda gli esiti di proscioglimento predibattimentale, tra i quali compare la declaratoria di intervenuta estinzione del reato, condizionati, a pena di nullità di ordine generale, dalla consultazione e, soprattutto, dalla non opposizione del pubblico ministero e dell’imputato (come affermato da sez. 2, n. 39252 del 22/06/2021, Rv. 282133).

Militano in senso contrario taluni argomenti, di natura testuale, teleologica e sistematica.

In primo luogo, il dato letterale, perché l’art. 162 ter comma 1 cod. pen. impone al giudice di sentire “le parti e la persona offesa” prima di pronunciare sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato per effetto di condotta riparatoria, ma – a differenza di quanto espressamente previsto dall’art. 469 cod. proc. pen. – non ha fatto dipendere la legittimità della decisione dal mancato dissenso delle parti.

L’esegesi preferita – che, nell’ambito della procedura riparatoria, assegna al contributo delle parti valenza eminentemente orientativa, ma non vincolante – si allinea, del resto, all’indirizzo ermeneutico della giurisprudenza di legittimità che si è occupata dell’applicabilità dell’analogo, sia pur non sovrapponibile, istituto di cui all’art. 35 del Decr. Lgs. n. 274 del 2000, in tema di estinzione dei reati di competenza del giudice di pace in conseguenza dell’intervenuta riparazione del danno cagionato dall’illecito. Si è propeso per l’interpretazione ad litteram, e si è affermato che l’estinzione del reato è soggetta alla valutazione di congruità del giudice, ma la norma citata, nel disciplinare che siano state previamente sentite le parti, non prevede che sia stato acquisito il consenso (del pubblico ministero, dell’imputato e/o) della persona offesa; ne deriva che è legittima la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta riparazione del danno qualora, pur nel dichiarato dissenso della persona offesa per l’inadeguatezza della somma di denaro posta a sua disposizione dall’imputato quale risarcimento, il giudice esprima una motivata valutazione di congruità della stessa con riferimento alla soddisfazione tanto delle esigenze compensative quanto di quelle retributive e preventive (cfr. sez. U, n. 33864 del 23/04/2015, Rv. 264240).

Sotto altro profilo, deve rilevarsi che, mentre il legislatore si è risolto ad introdurre, nel contenuto dell’art. 469 cod. proc. pen. – con la novella del Decr. Lgs. n. 28 del 2015 – il comma 1 bis, che ha esplicitamente esteso i criteri della regolamentazione della sentenza predibattimentale di non luogo a procedere alle ipotesi di non punibilità per particolare tenuità del fatto, contemplate dall’art. 131 bis cod. pen., tanto non ha ritenuto di fare con l’inserimento del nuovo istituto dell’art. 162 ter cod. pen. ad opera della L. n. 103 del 2017.

È ragionevole opinare che l’opzione non sia stata casuale, perché la condizione di non punibilità dell’art. 131 bis cod. pen. risponde a parametri di ampia discrezionalità, guidata dai canoni elencati dall’art. 133 comma 1 cod. pen., nella valutazione – complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta (sez. U n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590) – del grado di offensività della condotta, avuto riguardo alle modalità della stessa, all’esiguità del danno o del pericolo, persino al comportamento susseguente al reato; è apparso allora opportuno affidare anche all’acquiescenza delle parti – a cui è stata aggiunta, sia pure nei limiti della doverosa audizione, la persona offesa che sia comparsa all’udienza predibattimentale – una scelta decisoria di portata così tranciante e preclusiva tanto in ordine all’apprezzamento della riprovevolezza dell’illecito quanto in ordine al trattamento sanzionatorio, calibrato anche sulla misura del danno o del pericolo, ad essa conseguente.

Diversamente, il presupposto di operatività dell’art. 162 ter cod. pen. è più sollecito ed è regolato da una direttrice puntuale e circoscritta, che vincola il verdetto, pur evidentemente estraneo ad automatismi ed adottato sulla base del libero e motivato convincimento del giudice, all’integrale soddisfacimento della pretesa restitutoria e risarcitoria della persona offesa, a cui l’imputato deve dimostrare di aver assolto “interamente“.

Si deve dunque ritenere che l’intenzione del legislatore sia stata quella di attribuire all’istituto dell’estinzione del reato per effetto di condotta riparatoria una connotazione applicativa più agile e volta al tempestivo e progressivo contenimento del carico giudiziario, nell’attento ed equilibrato contemperamento con i profili di giustizia sostanziale conseguiti con l’eliminazione del pregiudizio arrecato alle vittime dei reati perseguibili a querela.

D’altro canto, le possibili carenze, qualitative o quantitative, della riparazione che il giudice abbia stimato congrua con la dichiarazione di estinzione di reato, rimangono suscettibili di rivisitazione nella sede civile, alla quale la persona offesa potrebbe sempre rivolgersi nel caso di insoddisfazione, stante l’impossibilità di attribuire alla sentenza di improcedibilità per estinzione del reato l’efficacia di giudicato nel giudizio civile ai sensi dell’art. 652 cod. proc. pen. (sez.5, n. 10390 del 14/02/2019, Rv. 276028).

Depone, ancora, per una più accentuata flessibilità dello strumento dell’art. 162 ter cod. pen. a scopi di deflazione processuale la mancata delimitazione – invece contenuta nell’art. 35 comma 2 del Decr. Lgs. n. 274 del 2000 sui reati di competenza del Giudice di pace (cfr. sez. U n. 33864 del 2015, cit., Rv.264239) – dei margini della sua applicabilità alla valutazione del soddisfacimento delle esigenze di riprovazione e prevenzione del reato, che trova conferma in altro inciso del dettato della norma in commento, nella parte in cui àncora l’operatività della causa estintiva all’acquisizione della prova della riparazione, ma non necessariamente all’accertamento della eliminazione delle “conseguenze dannose o pericolose del reato”, di cui l’imputato è tenuto a dare contezza solo “ove possibile”.

Può ancora osservarsi, da ultimo, che non si coglie il concreto interesse dell’imputato ad opporsi all’emissione di una sentenza di improcedibilità da lui di regola richiesta con l’esibizione degli elementi a sostegno dell’invocata riparazione del danno cagionato alla persona offesa; il “dissenso” potrebbe essere giustificato soltanto dalla prospettiva di ottenere una decisione più favorevole all’esito del dibattimento, antinomica ed incompatibile con la scelta di parte di accesso ai presupposti della procedura di semplificazione che consenta l’immediata dichiarazione di estinzione del reato, ontologicamente non riconducibile, pertanto, all’autonomo modello di definizione camerale partecipato di cui all’art. 469 cod. proc. pen.

Un’interpretazione più restrittiva, che posponga la facoltà di pronunciare la sentenza all’eventuale e non direttamente previsto veto delle parti, si pone insomma in contrasto con gli obbiettivi di snellimento che la riforma legislativa, poi confluita nell’articolato della L. n. 103 del 2017, ha perseguito sin dalle trame embrionali con la valorizzazione del principio della c.d. “depenalizzazione in concreto“, finalizzata ad incrementare gli strumenti processuali funzionali, in ottica di prevenzione generale e speciale, al contenimento del ricorso alla sanzione penale.

Si deve concludere, pertanto, che la causa di estinzione del reato di cui all’art. 162 ter cod. pen. sfugga ai precetti dell’art. 469 cod. proc. pen. e da tale angolatura di visuale le doglianze dell’ufficio ricorrente sono prive di pregio.

Per converso, quanto lamentato nel motivo di ricorso risulta accoglibile a riguardo dell’anomala fase procedurale in cui si sono collocate la formulazione e il perfezionamento dell’offerta di ristoro e la contestuale declaratoria di estinzione del reato, entrambe successive alla dichiarazione di apertura del dibattimento, in violazione del termine di decadenza di cui all’art. 162 ter cod. pen.

È invero di palmare evidenza, in virtù della semplice lettura della motivazione della sentenza impugnata, che alcuna offerta risarcitoria fosse stata formalizzata dall’imputata prima della dichiarazione di apertura del dibattimento e che, in ogni caso, la sua tardiva ammissione, sic et simpliciter, nel corso del dibattimento sia stata disposta in violazione dei presupposti e delle prescrizioni del secondo comma della norma menzionata.