La Cassazione sezione 5 con la sentenza numero 14370/2024 ha stabilito che in tema di procedimento dinanzi al giudice di pace, successivamente alla riforma di cui al d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, la parte civile non è legittimata a proporre appello ai soli effetti civili avverso le sentenze di proscioglimento di cui al comma 3 dell’art. 593 cod. proc. pen., come modificato dal decreto citato.
La Suprema Corte ha evidenziato che la questione posta dal ricorrente attiene all’interpretazione dell’art. 593, ult. comma, cod. proc. pen., la cui portata, dal punto di vista oggettivo, è stata ampliata, per effetto dell’art. 34, comma 1, lett. a), d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, entrato in vigore a decorrere dal 30 dicembre 2022, ai sensi dell’art. 99-bis del medesimo decreto legislativo.
Nel testo attualmente vigente, l’ultimo comma dell’art. 593 del codice di rito dispone nel senso che «sono in ogni caso inappellabili le sentenze di condanna per le quali è stata applicata la sola pena dell’ammenda o la pena sostitutiva del lavoro di pubblica utilità, nonché le sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa».
In altri termini, e per quanto qui rileva, l’ambito dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento è stato esteso ai procedimenti concernenti anche i reati non contravvenzionali, puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.
Dal punto di vista soggettivo, il d.lgs. n. 150 del 2022 non ha operato alcuna esplicita modificazione dell’art. 593 cod. proc. pen., che, disciplinando i casi di appello, si occupa, nei primi due commi, del pubblico ministero e dell’imputato, mentre nel terzo comma, non individua le parti destinatarie della regolamentazione, disponendo con una formula generale che sono «in ogni caso» inappellabili le sentenze ivi indicate.
L’inciso «in ogni caso», infatti, è stato introdotto dall’art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 e vale ad esprimere l’intento del legislatore di circoscrivere la portata del rimedio impugnatorio di secondo grado, escludendolo, per quanto qui rileva, per le sentenze di proscioglimento relative ai reati di minore gravità.
Questo intendimento è stato potenziato dalla riforma del 2021 – 2022, dal momento che l’art. 1, comma 13, lett. c), L. 27 settembre 2021, n. 134, con carattere di generalità, persegue l’obiettivo di escludere l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa.
Si tratta di un mutamento del contesto normativo che impone una rimeditazione dei confini dell’impugnazione di secondo grado, tenendo conto che la conclusione, nel senso dell’inappellabilità, non priva comunque la parte di uno strumento di controllo della decisione giurisdizionale, alla luce della persistente possibilità di proporre ricorso per cassazione.
Ora, pur tenendo conto delle peculiarità che caratterizzano il regime delle impugnazioni dinanzi al giudice di pace, si osserva che il d.lgs. 28 giugno 2000, n. 274 non detta disposizioni specificamente riferite alla parte civile, se non per il caso del ricorrente che abbia chiesto la citazione a giudizio dell’imputato, a norma dell’art. 21 dello stesso d.lgs. (art. 38).
E, in questo caso, nel quale la parte civile assume il ruolo di accusatore privato (v., infatti, di recente, Sez. 4, n. 43463 del 27/10/2022), l’impugnazione contro la sentenza di proscioglimento è ammessa negli stessi casi in cui è ammessa l’impugnazione del pubblico ministero.
In questa prospettiva, non è in discussione il potere generale di impugnazione riconosciuto dall’art. 576 cod. proc. pen. alla parte civile, ma la ragionevolezza di un sistema che, rispetto alle sentenze di proscioglimento, in difetto di una norma specificamente attributiva del potere di appello e in un contesto che mira a circoscrivere l’impugnabilità delle sentenze di secondo grado, riconosca alla parte civile, che abbia fatto valere esclusivamente una pretesa risarcitoria o restitutoria, poteri più ampi di quelli riconosciuti al pubblico ministero e soprattutto alla stessa parte civile che, valendosi dei poteri di cui all’art. 21 d.lgs. n. 274 del 2000, abbia introdotto una pretesa non dipendente dall’iniziativa della pubblica accusa.
È soprattutto il confronto interno ai poteri riconosciuti alla stessa parte civile, secondo che si avvalga o non dei poteri riconosciuti dall’art. 21 cit., a disvelare l’intrinseca incoerenza della diversificazione del regime dell’appello.
In tale contesto, non appaiono rilevanti le conclusioni di Sez. 3, n. 22924 del 11/05/2006, che, oltre ad essere precedenti alla generalizzazione che pare emergere dall’innovazione del 2018 resa palese dall’inciso “in ogni caso”, sono legate alle peculiarità del caso di specie, nel quale era stata posta la questione della sopravvenuta inammissibilità dell’appello della parte civile ai soli effetti civili avverso le sentenze di proscioglimento di primo grado.
E, infatti, al termine del suo percorso argomentativo, Sez. 3, n. 22924 del 2006 chiarisce che, anche a volere interpretare la nuova normativa come escludente il potere della parte civile di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, il principio tempus regit actum non potrebbe mai consentire il rilievo della inammissibilità dell’atto di appello della parte civile in una fase in cui il relativo procedimento ha già condotto, al momento dell’entrata in vigore della legge, ad una pronuncia su di esso.
Ad avviso della Cassazione su un piano generale, indipendentemente dalla portata dell’art. 576 cod. proc. pen., sono proprio, per un verso, l’art. 593 cod. proc. pen. — che, in difetto di una lex specialis come l’art. 37 d.lgs. n. 274 del 2000 per l’imputato, assume portata generale — e, per altro verso, una lettura sistematica fondata sul significato dell’art. 38 d.lgs. n. 274 del 2000, che convincono dell’inappellabilità della sentenza nel caso di specie.
Sono, quindi, questi dati normativi a costituire il fondamento di una lettura specificatrice del generale potere di impugnazione attribuito dall’art. 576 cod. proc. pen.
Ciò posto, si osserva che il Tribunale non ha affrontato il tema dell’applicabilità dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen.
Tuttavia, l’eventuale violazione della norma che impone la trasmissione degli atti al giudice competente, in caso di erronea qualificazione dell’impugnazione, non è stata dedotta dal ricorrente, il quale ha esplicitamente chiesto, «in accoglimento dei motivi di gravame sopra esposti», di «annullare la sentenza impugnata con tutte le conseguenze di legge, affinché l’appello possa essere esaminato nel merito».
D’altra parte, la violazione dell’art. 568, comma 5 del codice di rito neppure rientra tra le questioni rilevabili d’ufficio, ai sensi dell’art. 609, comma 2, cod. proc. pen., da parte della Corte di legittimità.
