Tra le tante norme del codice processuale penale, non sempre piane e talvolta addirittura oscure, ce ne è una che brilla per chiarezza.
È contenuta nel primo comma dell’art. 618 cod. proc. pen. (rubricato “Decisioni delle sezioni unite”) e prevede testualmente che “Se una sezione della corte rileva che la questione di diritto sottoposta al suo esame ha dato luogo, o può dar luogo, a un contrasto giurisprudenziale, su richiesta delle parti o di ufficio, può con ordinanza rimettere il ricorso alle sezioni unite”.
Nella semplicità della sua formulazione, questa norma ci dice molte cose.
La prima, rilevante solo per quelli cui piace la purezza linguistica scritta e orale: sezioni unite si scrive sezioni unite e così ha fatto il legislatore; sono dunque abusive le espressioni scritte Sezioni unite e, ancora peggio, Sezioni Unite.
La seconda: se c’è già stato o potrebbe esserci un contrasto giurisprudenziale, il legislatore attribuisce alla sezione che l’ha rilevato la facoltà di chiamare in causa le sezioni unite di cui sopra. È solo una facoltà, d’accordo, ed è anche sensato che sia così perché il terreno dell’interpretazione è soggetto alla sovranità giurisprudenziale e qualunque invasione di campo del legislatore sarebbe intesa come una sfida mortale. Ecco perché la norma conta più sulla moral suasion che sull’imposizione. Ma un suggerimento c’è e andrebbe tenuto in considerazione.
La terza: che succede se la sezione che percepisce il contrasto, reale o potenziale che sia, non segue la via della rimessione alle sezioni unite? Succede l’ovvio, cioè il contrasto è lasciato lì ad incancrenire, a produrre disparità di trattamento giurisdizionale a fronte di situazioni uguali, ad annichilire il principio dell’uniformità degli indirizzi interpretativi la cui realizzazione è tra le competenze funzionali della Suprema Corte e lo strettamente correlato principio della prevedibilità delle decisioni che ha grande importanza nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani.
Proprio in questi giorni ci siamo più volte occupati della questione del potere del PM di contestare suppletivamente una circostanza aggravante che renda procedibile d’ufficio un reato altrimenti procedibile a querela di parte, allorché sia già spirato il termine per sporgere la querela medesima.
Abbiamo annotato due decisioni agli antipodi emesse entrambe dalla quarta sezione penale: l’una che considera quel potere assoluto e non sindacabile né opponibile dal giudice; l’altra che lo considera come una manifestazione di abuso del processo da parte del PM.
Questa volta alleghiamo alla fine del post una terza decisione, ovviamente in forma anonimizzata, che aderisce al primo orientamento. La particolarità è che in questo caso il contrasto viene affrontato di petto, scrutato in ogni suo dettaglio e poi superato senza un battito di ciglia, senza neanche accennare all’eventualità della rimessione alle sezioni unite.
La Suprema Corte parla per ultima, le sue parole sono un sipario, la sua responsabilità è altissima.
Ma, almeno in questo caso, i giudici del collegio di legittimità non l’hanno minimamente avvertita.
