Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 40165/2024, udienza del 23 ottobre 2024, ha affermato che, in tema di nuove contestazioni in dibattimento, il giudice non può esercitare alcun sindacato preventivo sull’ammissibilità della contestazione del fatto diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio o del reato concorrente o della circostanza aggravante non menzionati in tale decreto, proposta dal PM ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., dovendo invece provvedere sul capo d’imputazione come modificato, stabilendo se sussista o meno la responsabilità penale dell’imputato.
In fatto
Il Tribunale ha dichiarato non doversi procedere ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen. nei confronti di CP perché l’azione non doveva essere proseguita per mancanza di querela in relazione al delitto contestato di cui all’art. 624 e 625, nn. 2 e 7, cod. pen, perché al fine di procurarsi un profitto e soddisfare il fabbisogno elettrico mediante manomissione del contatore si impossessava di energia elettrica sottraendola alla proprietaria E DISTRIBUZIONE SPA. Con le aggravanti di aver commesso il fatto con violenza sulle cose consistita nella manomissione interna del contatore.
Il Tribunale rilevava che era decorso infruttuosamente il termine di novanta giorni per la proposizione della querela così come previsto dall’art. 85, d. lgs. 150/2022, e che il PM aveva proceduto tardivamente alla contestazione suppletiva di cui al n. 7 dell’art. 625, cod.pen., dopo il perfezionamento dei termini di improcedibilità del reato.
Ricorso per cassazione
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello per violazione di legge.
Deduce in particolare che erratamente il Tribunale aveva fissato un termine di decadenza per il PM ai fini della contestazione di cui all’art. 517 cod. proc. pen. che può essere validamente effettuata fino alla chiusura del dibattimento e tale potere deriva dal principio di obbligatorietà dell’azione penale previsto dall’art. 103 della costituzione e non incorre in nessuna preclusione con l’unico limite della pronuncia della sentenza non essendo prevista alcuna delibazione da parte del giudice.
Richiama Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 47769/2023 e Sez. Feriale n. 43255/2023.
Decisione della Corte di cassazione
Il ricorso è fondato.
La pronuncia impugnata viola la legge secondo quanto prospettato nel ricorso del PM con riferimento all’esercizio del dell’azione penale, in specie al potere- dovere della contestazione suppletiva.
Va ribadito che in tema di nuove contestazioni in dibattimento, il giudice non può esercitare alcun sindacato preventivo sull’ammissibilità della contestazione del fatto diverso da come è descritto nel decreto che dispone il giudizio o del reato concorrente o della circostanza aggravante non menzionati in tale decreto, proposta dal PM ai sensi degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., dovendo invece provvedere sul capo d’imputazione come modificato, stabilendo se sussista o meno la responsabilità penale dell’imputato (cfr. Sez. feriale n. 43255 del 22.08.2023; Sez. 4, n. 48347 del 04/10/2023; Sez. 4 n. 652 del 7.12.2023, dep. 2024; Sez. 4 n. 39635 del 30.10.2024).
Tale affermazione si inserisce in un costante orientamento già ribadito da precedenti pronunce (Sez. 6, n. 37577 del 15/10/2010) secondo cui l’art. 516 cod. proc. pen., e segg., inseriti sotto la rubrica “Nuove contestazioni”, disciplinano l’esercizio dell’azione penale nel corso del dibattimento, mirando a salvaguardare il principio della necessaria correlazione tra accusa e sentenza. Il PM interviene sull’imputazione enunciata nell’atto che instaura il giudizio, per adeguarla a quanto emerge dalle prove raccolte, in modo che il dibattimento possa proseguire e la decisione conformarsi alla fattispecie concreta corretta e/o ampliata.
Effettuare una nuova contestazione è un potere esclusivo del PM, inerente all’esercizio dell’azione penale, la cui obbligatorietà è prescritta dall’art. 112 Cost.
Inoltre, nell’ipotesi ricorrente (art. 517 cod. proc. pen.), non sono richiesti né il consenso dell’imputato né l’autorizzazione del giudice. Pertanto, la decisione del giudice del dibattimento che, arrogandosi un potere che nessuna norma gli riconosce, nega al PM il compimento di un atto imperativo, insindacabile e obbligatorio qual è la contestazione della circostanza aggravante, rilevando la tardività, è illegittima.
Nello stesso senso si era già affermato che: “avvenuta la contestazione del reato connesso da parte del PM, il giudice che procede ha l’obbligo di provvedere in ordine al nuovo capo di imputazione, stabilendo se sussiste o meno la responsabilità penale dell’imputato, ovvero dichiarando la propria incompetenza perché il fatto appartiene a quella di un giudice superiore. E ove il giudicante ometta di decidere nel senso su riferito, la sentenza da lui resa potrà essere utilmente impugnata in quanto non si è pronunciata su di un capo di imputazione. Anzi, è proprio questo l’unico rimedio a disposizione del rappresentante della pubblica accusa avverso il rifiuto del giudicante a provvedere sulla contestazione effettuata ai sensi dell’articolo 517 cod. proc. pen., dal momento che la possibilità di procedere autonomamente – da taluni prospettata – è data per il reato connesso, ma non per la circostanza aggravante” (Sez. 2, n. 5180 del 5.11.1999).
A conferma di tale principio è sufficiente osservare che l’art. 517 stabilisce esclusivamente che il PM “contesta all’imputato” il reato connesso o la circostanza aggravante emersa dagli atti del dibattimento, senza prevedere alcun potere di intervento per l’organo giudicante, come fa invece l’art. 518 cod. proc. pen. con riferimento alla contestazione di un fatto nuovo, stabilendo che il presidente del collegio “può autorizzarla”.
Emerge pertanto evidente come dalla ricognizione delle norme di riferimento in presenza di una circostanza aggravante al giudice che procede è preclusa qualsiasi attività discrezionale posto che l’unico titolare dell’azione penale, il PM, può procedere alla modifica dell’imputazione.
Ulteriore argomento si trae dalla lettura della motivazione della sentenza della Corte costituzionale del 9 luglio 2015 n. 139 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 517 del cod. proc. pen., nella parte in cui nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell’esercizio dell’azione penale, non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione e che ha precisato che: “la contestazione “tardiva” di circostanze aggravanti, è idonea a determinare «un significativo mutamento del quadro processuale”, potendo incidere in modo rilevante sull’entità della sanzione – tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale – e talvolta sullo stesso regime di procedibilità del reato”. La Corte ha osservato, inoltre, che “l’imputato che si veda contestare in dibattimento una circostanza aggravante già risultante dagli atti di indagine si trova in situazione non dissimile da quella del destinatario della contestazione “tardiva” di un fatto diverso: sicché, una volta divenuta ammissibile la richiesta di “patteggiamento” nel caso di modificazione dell’imputazione a norma dell’art. 516 cod. proc. pen., la preclusione di essa nel caso di contestazione di una nuova circostanza aggravante, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., risulta foriera di ingiustificate disparità di trattamento al pari della richiesta di giudizio abbreviato“.
Nel caso in esame il PM in dibattimento alla udienza di costituzione delle parti ha richiesto la modifica dell’imputazione e la contestazione dell’aggravante del 625 n. 7 cod. pen. da cui derivava in astratto la procedibilità di ufficio del reato contestato; il Tribunale ha negato l’esercizio di tale potere-dovere rilevandone illegittimamente la tardività sul presupposto errato che erano decorsi i termini per proporre la querela da parte della persona offesa e ha deciso sulla base della originaria imputazione, dichiarando la improcedibilità ex art. 129 cod. proc. pen.
Vanno qui richiamati, quanto alla rilevata tardività della contestazione suppletiva, anche i principi affermati da Sez. U. n.4de128/10/1998 (dep.11/03/1999), Barbagallo, secondo cui “la direttiva n. 78, di cui all’art. 2 delle legge delega per il vigente codice di rito (L. 16 febbraio 1987 n. 81), prevedendo appunto il potere del PM di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione non pone specifici limiti temporali all’esercizio di detto potere nell’ambito di tale fase processuale, ne’ consente di fare distinzioni quanto alla fonte degli elementi dai quali la contestazione “suppletiva” trae causa. E ciò è stato previsto dalla direttiva in esame, e poi introdotto nel codice di rito, perché la modifica dell’imputazione o la contestazione di una circostanza aggravante, come pure di un reato concorrente, non possono che considerarsi come eventualità fisiologiche in un sistema processuale che si ispira al rito accusatorio incentrato nel dibattimento, ma che non consente, come più volte ricordato dalla Corte costituzionale, dispersione degli elementi utili per un “giusto processo“.
Ora, è vero che la tendenziale parità delle parti, cui si ispira la logica del sistema accusatorio – nell’esaltare il principio del contraddittorio – richiede che il PM formuli l’imputazione in base agli elementi d’accusa già acquisiti nelle indagini preliminari (artt. 405-407 cod. proc. pen.) e che, a sua volta, l’imputato, posto a conoscenza degli elementi di accusa, possa sin dall’inizio del dibattimento contrastarli efficacemente. Ma ciò non può comportare, come ineluttabile conseguenza, che, se il PM, per inerzia o errore, abbia omesso in parte la contestazione di elementi di accusa già acquisiti, non possa provvedervi poi nel dibattimento, e sin dal suo inizio, apportando le necessarie modifiche all’imputazione.
Senza contare, infine, che la contestazione suppletiva all’inizio del dibattimento e sulla base di elementi non considerati nella formulazione dell’originaria imputazione, in caso di circostanza aggravante o di modifica dell’imputazione, evita di precludere al PM la possibilità di richiedere un accertamento completo del fatto-reato, in sede di giudizio. E ciò perché gli elementi modificativi od integrativi del fatto (quali le circostanze aggravanti) non potrebbero mai formare oggetto di autonomo giudizio penale, diversamente da quanto sostenuto erratamente nella sentenza impugnata. Si darebbe luogo altrimenti ad una contrazione dell’ambito di esercizio dell’azione penale, con ciò contravvenendosi al disposto dell’art. 112 Cost.
Ed ancora, proprio a garanzia del diritto di difesa, l’art. 519 cod. proc. pen. dà facoltà all’imputato, nei cui confronti il PM abbia proceduto a contestazione suppletiva (“salvo che la contestazione abbia per oggetto la recidiva”), di chiedere al giudice un termine per poter contrastare l’accusa perché in parte integrata o modificata.
La norma in esame, peraltro, aggiunge che il tempo concesso dal giudice non può essere “inferiore al termine per comparire previsto dall’art. 429 (art. 519, comma 2), cioè non inferiore a venti giorni”.
Si è detto che nel caso di cui è processo il PM in dibattimento, nel primo segmento processuale utile, aveva richiesto la modifica dell’imputazione e la integrazione della rubrica della imputazione con la contestazione dell’aggravante di cui all’art. 625 n. 7 cod. pen. da cui derivava in astratto la procedibilità di ufficio del reato contestato ed il Tribunale ha sostanzialmente negato l’esercizio di tale potere-dovere rilevandone la tardività sul presupposto che erano decorsi i termini per proporre la querela da parte della persona offesa a seguito della modifica legislativa e ha deciso sulla base della originaria imputazione rilevando la improcedibilità ex art. 129 cod. proc. pen., violando tutti i principi del contraddittorio.
In riferimento al momento processuale in cui il potere di precisazione della contestazione, immediatamente derivante dal principio costituzionale dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., deve essere esercitato, le direttrici ermeneutiche declinate dalla giurisprudenza di legittimità, nella sua più autorevole composizione, la citata Sez. U. Barbagallo, non assegnano alcuna preclusione correlata alla preesistenza, rispetto all’apertura del dibattimento, degli elementi di fatto che portano alla modifica dell’imputazione di cui all’art. 516 cod. proc. pen. e alla contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all’art. 517 cod. proc. pen., poiché le nuove contestazioni possono essere effettuate dopo l’avvenuta apertura del dibattimento e prima dell’espletamento dell’istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal PM nel corso delle indagini preliminari. Di guisa che il potere di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni va riconosciuto al PM senza specifici limiti temporali o di fonte, nel primo segmento processuale utile, (argomenta anche da Sez. U. n. 49935 del 28.09.2023, Domingo) in quanto l’imputato ha facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l’accusa, esercitando ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto ad essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi o l’oblazione (tra le tante, Sez. 6, n. 18749 del 11/04/2014; Sez. 6 n. 44980 del 22.09.2009).
Nel caso in esame, deve rilevarsi che il Tribunale, nel pronunciare sentenza di immediata declaratoria del proscioglimento dell’imputato per mancanza della condizione di procedibilità del reato di furto pluriaggravato, e nell’escludere, nel corso del dibattimento, la facoltà del PM di procedere alla contestazione suppletiva della circostanza aggravante della destinazione “a pubblico servizio” di cui all’art. 625 comma 1 n. 7, ultima parte, cod.pen., ha anticipato la decisione, pervenendo ad una declaratoria ai sensi dell’art.129 cod. proc. pen, così dettando, ancor prima della chiusura della istruzione dibattimentale, i termini della discussione finale (limitata alla ricorrenza di un mutamento del regime della procedibilità del reato ascritto), nonostante fosse stato sollevato dall’organo della Procura l’incidente relativo alla contestazione suppletiva.
In sostanza, pertanto, il Tribunale non ha considerato che il PM alla prima udienza utile aveva formulato una contestazione suppletiva la quale – in astratto – avrebbe consentito di ricondurre la fattispecie nell’alveo della punibilità di ufficio, omettendo del tutto di riconoscere all’imputato le garanzie previste dall’art.519 cod. proc. pen. una volta che la contestazione suppletiva era divenuta patrimonio del processo e di valutare le sopravvenienze istruttorie, pure intervenute nel corso del giudizio, le quali avrebbero potuto concorrere a confortare la plausibilità della contestazione suppletiva medesima limitandosi a rilevare la sopravvenuta improcedibilità dell’azione penale per mancata presentazione della querela da parte della persona offesa entro il termine di legge e invitando le parti a confrontarsi solo su tale tema, riconosciuto come pregiudiziale.
Ne consegue che l’ingiustificata accelerazione verso l’epilogo de plano del giudizio, come sopra evidenziata, ha determinato un rilevante vulnus alla pienezza del contraddittorio sui temi che formavano oggetto del procedimento, da cui è conseguita altresì la limitazione dell’iniziativa dell’ufficio del PM nell’esercizio dell’azione penale in una prospettiva di precisazione-integrazione del capo di imputazione, con riferimento alla ricorrenza di una circostanza aggravante, la quale, se effettivamente riconosciuta come esistente, anche a seguito di contestazione suppletiva, avrebbe assicurato la resistenza della fattispecie incriminatrice al mutamento delle condizioni di procedibilità pure introdotto, a fare data dal 30 dicembre 2022, dalla disciplina della riforma Cartabia.
Le inosservanze in cui è incorso il Tribunale sono riconducibili a ipotesi di nullità di ordine generale di cui all’art.178 cod. proc. pen. laddove attengono ai limiti dell’esercizio dell’azione penale ai sensi dell’art.179 in relazione all’art.178, lett. b), cod. proc. pen. e al conseguente diritto delle parti private di contraddire sul punto; esse, peraltro, si atteggiano altresì quali vulnus alla stessa integrità del contraddittorio nel corso del giudizio, in quanto hanno determinato una ingiustificata limitazione al potere di intervento delle parti su temi decisivi del giudizio.
Il potere di procedere nel dibattimento alla modifica dell’imputazione o alla formulazione di nuove contestazioni va riconosciuto al PM senza specifici limiti temporali o di fonte, nel primo segmento processuale utile, in quanto l’imputato ha facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l’accusa, esercitando ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto ad essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi o l’oblazione (così, Sez. 4 n. 39635 del 3.10.2024; Sez. 6, n. 18749 del 11/04/2014, Sez. 6 n. 44980 del 22.09.2009).
In conclusione, va affermato che il PM, ai sensi dell’art. 517 cod. proc. pen., era pienamente legittimato ad effettuare la contestazione suppletiva della circostanza aggravante in questione relativa all’art. 625, n. 7, cod.pen., a seguito della quale il reato oggetto di contestazione non era più in astratto procedibile a querela di parte ma d’ufficio e il Tribunale doveva decidere sulla regiudicanda come risultante dal legittimo esercizio da parte del PM del potere dovere di formulare la imputazione.
Nel caso in esame, l’esercizio da parte del PM del potere di integrare la contestazione nel primo segmento processuale utile non poteva essergli precluso dal giudice, E una volta che questo potere sia stato validamente esercitato, il giudice aveva l’obbligo di pronunciarsi sulla imputazione da ultimo contestata, non certo sull’imputazione originaria ormai superata, e ciò dopo aver garantito il contraddittorio ai sensi dell’art. 519 cod. proc. pen.
L’esigenza di “correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza” (art. 521 cod. proc. pen.) impone al giudice di pronunciarsi sul fatto che risulti validamente contestato all’imputato.
Il PM non solo può, ma deve procedere, alla prima udienza utile, alla contestazione suppletiva dell’aggravante che, nella specie, rende il reato procedibile d’ufficio, avendone il potere e l’occasione (offerta dal segmento processuale dell’udienza nel contraddittorio delle parti, che deve sempre precedere l’assunzione della decisione); una volta formulata la contestazione, il thema decidendi si estende alla circostanza aggravante e viene eliminato l’ostacolo processuale al prosieguo dell’azione penale; il giudice non ha ragione di emettere una sentenza di improcedibilità, poiché non si è realizzato alcun effetto preclusivo definitivo che imponga una pronuncia “ora per allora”, dato che, nel caso di declaratoria di improcedibilità – a differenza dell’ipotesi di estinzione di un reato che, essendo venuto meno nella dimensione sostanziale, non può rivivere – anche i fatti sopravvenuti assumono rilievo e la decisione deve verificare la situazione al momento in cui è resa.
Nel caso in concreto, il giudice ha illegittimamente impedito l’esercizio da parte del PM in udienza, nel primo segmento processuale utile, della contestazione suppletiva relativa all’integrazione della rubrica del reato contestato con il riferimento all’art. 625, n. 7, e ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere secondo la originaria imputazione arrogandosi un diritto impeditivo e valutativo sull’esercizio dell’azione penale da parte del PM che non gli viene riconosciuto dal sistema e negando il contraddittorio tra le parti. Il principio di immediatezza di cui all’art. 129 cod. proc. pen., non implica, infatti, una pronuncia intermedia prima che la fase processuale nella quale può manifestarsi la causa di improcedibilità sia esaurita. In questo arco temporale deve ritenersi applicabile l’art. 517, cod. proc. pen.
Spetterà al giudice, all’esito del contraddittorio riaperto ai sensi dell’art. 519, cod. proc. pen. valutare se l’aggravante contestata sussiste oppure no.
Ne consegue che, qualificata l’impugnazione del PM quale ricorso e ritenuta sussistente la nullità denunciata con il ricorso del Procuratore della Repubblica ricorrente, poiché in violazione delle norme di legge sopra richiamate il giudice del dibattimento ha precluso al PM il potere-dovere di esercitare e proseguire l’azione penale per il fatto-reato correttamente circostanziato e qualificato, il Tribunale è incorso in una nullità assoluta di ordine generale prevista dagli artt. 178 e 179, cod. proc. pen., che attiene alla formulazione della imputazione e all’esercizio dell’azione penale; nel caso di specie, ricorre, pertanto, il caso di cui all’art. 569 comma 4 prima parte, in relazione all’art. 604 comma 4 cod. proc. pen e l’annullamento va disposto senza rinvio al Tribunale in diversa composizione, per l’ulteriore corso.
Commento
Ci si limita ad osservare che la stessa quarta sezione penale della Cassazione, con la sentenza n. 27181/2024 (a questo link per consultare il nostro approfondimento) che aveva ad oggetto una questione pressoché sovrapponibile, è arrivata a conclusioni diametralmente opposte da quelle esplicitate nella decisione qui commentata la quale, peraltro, neanche cita il precedente contrastante, non fosse altro che per confutarlo.
All’interno della medesima sezione penale della Suprema Corte c’è dunque chi pensa che il potere del PM di contestare suppletivamente circostanze aggravanti tali da modificare il regime della procedibilità sia assoluto ed incontrastabile dal giudice e chi pensa invece che il suo esercizio, ove giunto a tempo scaduto, quando cioè sia inutilmente spirato il termine per la proposizione della querela, sia sintomo di un abuso del processo.
Di più: basta leggere in parallelo le due decisioni e si constaterà che i due collegi di legittimità, pur richiamandosi entrambi alla decisione Domingo delle Sezioni unite penali, l’hanno richiamata e valorizzata in direzioni e per scopi non mediabili tra loro.
Si conclude con alcune domande.
Possibile che in una sezione della Corte regolatrice gli uni ignorino ciò che decidono gli altri? Possibile che non vi sia alcun coordinamento che assicuri la circolazione delle decisioni, il dibattito sulle stesse e il raggiungimento di una posizione comune?
Possibile che, ove si constati l’indisponibilità a raggiungere un orientamento condiviso, non si avverta la necessità di interpellare le Sezioni unite perché dirimano il contrasto?
Possibile, in ultima analisi, che a nessuno stia a cuore la prevedibilità degli indirizzi interpretativi, ossia un bene prezioso per qualunque istanza giudiziaria ma addirittura indispensabile per la Corte cui è affidata l’unità del diritto nazionale?
