La Cassazione sezione 6 con la sentenza numero 36431/2024 permette una compiuta disamina della struttura del reato di resistenza a pubblico ufficiale e della sua configurabilità oggi in attesa delle novità prossime previste dal DDL Sicurezza.
La vicenda avviene all’interno di un carcere ed è interessante esaminarla alla luce delle probabili novità introdotte dal decreto sicurezza che prevede, tra l’altro il nuovo reato di “rivolta all’interno di un istituto penitenziario”.
«Chiunque, all’interno di un istituto penitenziario, partecipa a una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione degli ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite, è punito con la reclusione da uno a cinque anni», si legge nel disegno di legge “Sicurezza”.
Tra gli “atti di resistenza” rientrano anche i comportamenti di resistenza passiva che impediscono il compimento di atti d’ufficio necessari alla gestione dell’ordine nel carcere.
Le pene per questo nuovo reato sono aumentate per chi lo commette usando le armi oppure se ne derivano lesioni per le persone, o la morte di qualcuno. La pena massima può arrivare fino a vent’anni di carcere.
Torniamo alla sentenza richiamata nell’incipit.
Fatto
Dalla sentenza impugnata emerge che:
a) l’agente di polizia penitenziaria C., durante lo svolgimento del proprio turno di lavoro presso la Casa di reclusione di Milano Opera, fu chiamato dall’imputato che, in quel momento, era all’interno della sua cella di pernottamento;
b) l’agente, arrivato alla cella, fu oggetto di scherno;
c) l’agente, dopo aver richiamato all’ordine l’imputato, fu attinto da frasi minacciose, nel senso che fu invitato dall’imputato ad allontanarsi dalla cella altrimenti sarebbe stato colpito con oggetti.
Le corti di merito hanno ritenuto configurabile il reato di resistenza a pubblico ufficiale.
Decisione
La Suprema Corte premette che le Sezioni unite hanno già spiegato che la condotta tipica del delitto in esame si concreta nell’uso della violenza o della minaccia da chiunque esercitata per “opporsi a un pubblico ufficiale” (o a un incaricato di un pubblico servizio o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza) mentre compie un atto dell’ufficio o del servizio.
L’elemento oggettivo del reato risulta tipizzato sul piano modale e teleologico, essendo sanzionata ogni condotta diretta a conseguire lo scopo oppositivo indicato dalla disposizione attraverso l’uso di violenza o minaccia nei confronti del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio agente.
I suddetti elementi fattuali rilevano nella loro idoneità e univocità a impedire o a turbare la libertà di azione del soggetto passivo, sicché il reato è integrato da qualsiasi condotta che si traduca in un atteggiamento, anche implicito, purché percepibile, che impedisca, intralci o valga a compromettere, anche solo parzialmente o temporaneamente, la regolarità del compimento dell’atto dell’ufficio o del servizio, restando così esclusa ogni resistenza meramente passiva, come la mera disobbedienza.
La struttura della fattispecie sotto il profilo fattuale, prevede, dunque, una condotta commissiva-oppositiva connotata:
a) dalla violenza o dalla minaccia (esclusa, come detto, la mera resistenza passiva) rivolta (in modo diretto o indiretto, esplicito o implicito) esclusivamente contro il pubblico ufficiale o il soggetto normativamente ad esso equiparato, siccome tesa a coartarne o a impedirne l’agire funzionale;
b) dalla volontà (dolo specifico) di ostacolare il soggetto passivo nel momento dell’esercizio della funzione pubblica.
L’espressione adoperata dal legislatore – «mentre compie un atto di ufficio o di servizio» – ha la finalità di individuare contesto e finalità della condotta oppositiva e di circoscriverne la rilevanza nell’ambito di un obiettivo nesso funzionale ed di un determinato arco temporale, ricompreso tra l’inizio e la fine dell’esecuzione dell’atto dell’ufficio o del servizio; sicché, al di fuori del suddetto ambito, la violenza o la minaccia rivolte al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio configurano fattispecie diverse, quali ad esempio la violazione dell’art. 336 cod. pen. nel caso in cui la violenza e la minaccia siano antecedenti all’atto dell’ufficio (così, testualmente, Sez. U, n. 40981 del 22/02/2018, Apolloni, Rv. 273371).
Sulla base di tale quadro di riferimento, la sentenza rivela il suo vizio strutturale; rispetto al reato di resistenza a pubblico ufficiale non è stato infatti individuato l’atto dell’ufficio che il pubblico ufficiale sarebbe stato intento a compiere al momento in cui fu commessa la condotta, atteso che:
a) l’imputato, al momento in cui chiamò l’agente di polizia penitenziaria, era già all’interno della propria cella;
b) la condotta non fu volta ad opporsi ovvero a impedire alcunché ma soltanto ad “insultare” l’agente;
c) l’atto, diversamente da quanto affermato dai giudici di merito, non può essere individuato nel generico riferimento al “regolare svolgimento dell’attività di vigilanza“, ovvero nell’invito rivolto dal pubblico agente ad avere “un comportamento consono” che, peraltro, non fu né impedito, né, di fatto, ostacolato.
Né è stato provato, ai fini di una possibile riqualificazione dei fatti e della loro riconducibilità al reato previsto dall’art. 341-bis cod. pen., che le offese furono proferite in presenza di più persone.
Ne consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Questo è l’oggi ma il domani non sarà così perché il riferimento per quanto generico “ai comportamenti di resistenza passiva che impediscono il compimento di atti d’ufficio necessari alla gestione dell’ordine nel carcere” aprono o, meglio, chiudono ulteriormente le porte a chi in carcere intenda e chieda di far rispettare i propri diritti che possono essere considerati di intralcio “alla gestione dell’ordine”.
