Per giurisprudenza in costante consolidamento il tentativo di delitto non è integrato esclusivamente laddove l’agente abbia dato corso all’esecuzione della condotta tipica, bensì sussiste anche nell’atto in cui gli atti preparatori abbiano raggiunto il “punto di non ritorno”.
Un principio di diritto che deve confrontarsi con le peculiarità del caso concreto e che, non di rado, impone al giudice di motivare adeguatamente le ragioni per cui abbia ritenuto oltrepassata la sottile linea che separa un atto prodromico alla commissione di un delitto e una condotta che, per converso, abbia integrato gli estremi di un tentativo di delitto penalmente rilevante.
La decisione annotata è Cassazione penale, Sez. 7^, sentenza n. 39072/2024, udienza del 24 settembre 2024, allegata alla fine del post in forma anonimizzata.
Si tratta di una pronuncia che, in sole tre pagine, evidenzia alcuni capisaldi della disciplina del tentativo.
La decisione nomofilattica trae origine da un ricorso per cassazione promosso da un imputato condannato per il delitto di tentata rapina che, nel proprio costrutto difensivo, sosteneva come i giudici di merito avessero errato nel ritenere integrato il requisito dell’univocità degli atti richiesto ai sensi dell’art. 56 c.p.
Il ricorso non coglie nel segno e viene dichiarato inammissibile.
La S.C. non tarda a rammentare – come spesso accade – che il giudizio di legittimità precluda al ricorrente di ottenere una nuova valutazione delle prove esaminate nei processi di merito; anche in questo caso, la Cassazione rileva che le censure promosse dal ricorrente non si fossero tradotte in una doglianza relativa all’eventuale mancanza, contraddittorietà e/o illogicità della motivazione, bensì aveva sollecitato – indirettamente – un nuovo giudizio.
Invero, “il controllo di legittimità, invece, concerne il rapporto tra motivazione e decisione, e non già il rapporto tra prova e decisione; sicché il ricorso per cassazione che devolva il vizio di motivazione, per essere valutato ammissibile, deve rivolgere le censure nei confronti della motivazione posta a fondamento della decisione, non già nei confronti della valutazione probatoria sottesa, che, in quanto riservata al giudice di merito, è estranea al perimetro cognitivo e valutativo della Corte di cassazione, alla quale, pertanto, è preclusa la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova”.
Inoltre – e qui risiede il fascino della pronuncia – la S.C., in poche battute, offre degli spunti di riflessione che, nella loro linearità e semplicità, permettono di comprendere integralmente in cosa si articoli il criterio dell’univocità degli atti ex art. 56 c.p.
Analizzando la sentenza di merito che ha condannato l’imputato per il delitto di tentata rapina, emergono chiaramente i fatti che hanno consentito, con motivazione immune da vizi, di ritenere proprio oltrepassata quella sottile linea di confine tra gli atti preparatori penalmente rilevanti e quelli che, invece, ancora non consentono di ritenere integrato un tentativo punibile.
In dettaglio, dal giudizio era emerso che:
- l’imputato era stato sorpreso aggirarsi sospetto nei pressi dell’ufficio postale;
- l’imputato e uno dei suoi complici erano armati di pistola;
- le intercettazioni telefoniche avevano consentito di individuare con dovizia di particolari l’accurata progettazione del delitto.
Dunque, sebbene la tentata rapina si fosse arrestata allo stadio degli atti preparatori, per le Corti di merito gli atti preparatori descritti erano comunque connotati “dai necessari requisiti di univocità e idoneità”.
Tale asserzione – che è indubbiamente fedele ai principi di offensività e materialità – trova radicato fondamento nella giurisprudenza di legittimità per cui “In tema di delitto tentato, anche gli atti preparatori possono integrare gli estremi del tentativo punibile, purché univoci, ossia rivelatori, per il contesto nel quale si inseriscono e per la loro natura ed essenza, secondo le norme di esperienza e l’“id quod plerumque accidit”, del fine perseguito dall’agente” (tra le tante, v. Cass. pen., Sez. VI, 18 ottobre 2023, n. 46796).
La decisione contribuisce a comporre quel mosaico costituito dalla casistica che permette all’interprete – e alla dottrina – di saggiare costantemente l’indirizzo della giurisprudenza di legittimità rispetto a una materia (gli atti preparatori nel delitto tentato) che non sempre è di agile applicazione nei fatti concreti che vengono sottoposti all’Autorità giudiziaria.
In altre parole, sia consentito il tenore colloquiale delle conclusioni, queste sentenze “ci piacciono” perché in poche righe e con un esempio limpido coadiuvano nel dissipare eventuali dubbi interpretativi.
