La Cassazione sezione 3 con la sentenza numero 33352/2024 si è soffermata sulle corrette modalità che deve seguire il difensore per acquisire le dichiarazioni testimoniali e le conseguenze processuali e disciplinari in caso di errori e omissioni.
Fatto
Il Tribunale, nel rilevare come gli atti di indagine difensivi, costituiti dalle dichiarazioni sottoscritte da M.S., e M.H., rispettivamente sorelle e madre della ricorrente, a sostegno delle ragioni di quest’ultima, fossero privi sia dell’autenticazione del difensore, sia della relazione resa da quest’ultimo in conformità a quanto prescritto ex lege, correttamente ne ha dichiarato, stante la mancanza dei requisiti prescritti dall’art. 391 ter cod. proc. pen., l’inutilizzabilità, peraltro trasmettendo, a fronte dei riscontrati inadempimenti, il provvedimento al Consiglio dell’ordine forense per le valutazioni in tema di illecito disciplinare.
Decisione
La Suprema Corte ha ricordato che le indagini difensive possono trovare ingresso nel processo penale in quanto alla mancanza del contraddittorio nel momento di acquisizione della prova sopperiscano le modalità e il rispetto dei limiti specificamente contemplati dall’art. 391-ter cod. proc. pen. per la loro formazione, volti ad assicurare la certezza dell’epoca in cui sono state rilasciate (lett. a), la certezza della loro provenienza così come del soggetto che ne fa richiesta (lett. b), la consapevolezza, acquisita dagli avvertimenti ricevuti dal difensore, da parte dei dichiaranti delle finalità perseguite attraverso le loro dichiarazioni, dei divieti, degli obblighi, delle facoltà e delle responsabilità penali ad esse collegate (lett. c) e la conoscenza dei fatti sui quali vertono le dichiarazioni (lett. d), cui deve accompagnarsi la relazione dell’attività svolta in osservanza alle suddette prescrizioni formalmente sottoscritta dal difensore o da un suo sostituto.
La mancata osservanza di tali modalità è espressamente sanzionata dall’inutilizzabilità ai sensi del sesto comma dell’art. 391 bis cod. proc. pen., dovendosi al riguardo sottolineare come la normativa introdotta dalla L. n. 397 del 2000 abbia attribuito una specifica valenza procedimentale all’attività difensiva, formalizzandola intorno all’area delle possibili indagini e rendendo tipici gli atti principali, con l’indicazione delle modalità, della documentazione ed utilizzazione degli stessi.
Nessuna interpretazione relativista può essere, pertanto, patrocinata, così come vorrebbe il ricorrente, a fronte di un’inutilizzabilità patologica, ovverosia ricorrente ai sensi dell’art. 191 cod. proc. pen. in presenza di prove illegittimamente acquisite, vale a dire violando una specifica norma processuale che disponga il divieto.
Nè dalla circostanza che le disposizioni contenute nei commi precedenti all’art. 391-bis cod. proc. pen., comma 6 attengano, come già osservato nella sentenza della Suprema Corte n. 36036 del 28/11/2013, alla tutela di interessi superiori e le condotte imposte al difensore siano suscettibili di integrare, ove violate, un illecito disciplinare, possono trarsi ragioni di una lettura limitativa della sanzione, espressamente prevista, della inutilizzabilità delle “dichiarazioni” e delle “informazioni”, “ricevute” e rispettivamente “assunte” in violazione delle disposizioni di cui ai commi precedenti, e quindi anche della previsione di cui all’ultima parte del comma 2 del medesimo articolo, alla cui stregua le dichiarazioni e le informazioni sono “da documentare secondo le modalità previste dall’art. 391-ter“.
L’inutilizzabilità è infatti la conseguenza processuale, rilevabile anche di ufficio, dell’inosservanza dei divieti all’ammissione delle prove o delle regole previste per la loro acquisizione.
Orbene, trattandosi nel caso di specie di dichiarazioni autonomamente rese dalle scriventi, corredate dalla fotocopia del documento di identità, in risposta alla richiesta di un elenco di domande inviate via mail dal difensore, sia pure accompagnata dagli avvisi di cui all’art. 391-bis terzo comma cod. proc. pen., e trasmessa anch’essa via e-mail ai destinatari, le conclusioni raggiunte dal G.E. in ordine alla loro inutilizzabilità devono ritenersi, già con riferimento a tale primo punto, pienamente conformi al dato normativo (Sez. 3, n. 2017 del 15/07/2003, Rv. 227390; Sez. F, n. 34554 del 25/07/2003, Rv. 228394).
Emerge invero con palese evidenza come le suddette modalità non siano sufficienti ad attestare la effettiva provenienza delle risposte date in assenza del difensore, resa vieppiù incerta dal mezzo di trasmissione che, in quanto costituito da un’e-mail ordinaria, e non già da PEC, ed in assenza di firma digitale, non ne consente di accertare la riferibilità ai dichiaranti.
A ciò si aggiunge la mancata allegazione della relazione scritta prevista dall’art. 391 ter cod. proc. pen.: non rileva che il difensore abbia in altro modo provveduto agli oneri di informazione contemplati dal precedente art. 391-bis, posto che la documentazione dell’avvenuta esposizione dei suddetti avvertimenti è esclusivamente costituita, stante la previsione a pena di inutilizzabilità contenuta nel sesto comma della medesima norma, dalla relazione sottoscritta dal difensore o da un suo sostituto, che proprio in ragione della sanzione comminata rispondente ad esigenze di logica formale e di coerenza sistematica, non ammette equipollenti (Sez. 3, sentenza n. 17225 del 14/03/2023, Rv. 284555).
Del resto, come già puntualizzato da un altro precedente della cassazione, la non sostituibilità della relazione prescritta dall’art. 391-ter cod. proc. pen. trova chiaro fondamento nella circostanza che analoga verbalizzazione analitica è richiesta per l’attività del pubblico ministero e del giudice e nel rilievo che non vi sarebbe ragione di differenziare il regime di documentazione degli atti difensivi, assegnando a essi la legge la stessa rilevanza processuale (Sez. 1, sentenza n. 36036 del 28/11/2013, Rv. 261119).
Né è possibile, come inopinatamente sostiene la difesa, superare la previsione legge annoverando le dichiarazioni raccolte in sede di indagini difensive nell’ambito dei documenti, dei quali è consentita, secondo quanto disposto dall’art. 234 cod. proc. pen., la libera utilizzazione, sia pure con le limitazioni di cui al terzo comma, a fini di prova.
Non può, invero, prescindersi dal rilievo che ricompresi in tale categoria sono le attestazioni di “fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo” che, come ben chiarito dalla cassazione nel suo supremo consesso, si distinguono nettamente dagli atti del procedimento perché sono formati, in conformità a quanto puntualizzato dalla Relazione al Progetto preliminare del vigente codice di rito, “al di fuori del processo nel quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso” (Sez. U, sentenza n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234267 in una fattispecie relativa alle videoregistrazioni in luoghi pubblici ovvero aperti o esposti al pubblico, non effettuate nell’ambito del procedimento penale).
È dunque evidente che l’acquisizione di atti strettamente funzionali al processo ed avvenuta al suo interno, quali inequivocabilmente si configurano le dichiarazioni e l’assunzione di informazioni ai sensi dell’art. 391-bis cod. proc. pen. non possa mai essere ricondotta nel novero dei “documenti” (così Sez. 6, sentenza n. 12921 del 28/02/2019, Rv. 275645) e, men che meno, in quello delle prove atipiche, come pure sembra ipotizzare la difesa: basti al riguardo rilevare che se la prova atipica è quella, come recita testualmente l’art. 189 cod. proc. pen., non disciplinata dalla legge”, le dichiarazioni di persone informate sui fatti raccolte nel contesto delle indagini difensive sono, essendone la relativa acquisizione regolamentata dagli artt. 391-bis e segg. cod. proc. pen., automaticamente incluse nell’ambito delle prove tipiche.
