Revisione del giudicato penale: principi su cui si fonda e parametri da rispettare per ottenerla (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 36435/2024, udienza del 21 giugno 2024, offre una summa dei principi posti a base dell’istituto della revisione.

Le Sezioni unite hanno chiarito, da una parte, che la ragione costitutiva della rivalutazione del giudicato penale attraverso lo strumento della revisione – in deroga al principio cardine dell’intangibilità del giudicato – è costituita dalla necessità di sciogliere un contrasto tra una verità formale (attestata nella sentenza divenuta irrevocabile) ed una verità fenomenica che si manifesta a seguito di situazioni o emergenze nuove non considerate dalla sentenza di condanna, e, dall’altra, che la “ratio” dell’istituto non può che essere individuata nella irrinunciabile esigenza del “favor innocentiae” che permette di sacrificare il giudicato ad immanenti esigenze di giustizia sostanziale. (Sez. un., n. 624 del 26/09/2001, (dep. 2002) Pisano, Rv. 220441).

In tale senso, si afferma, “rispetto alla regola della intangibilità del giudicato, uno dei valori fondamentali, cui la legge attribuisce priorità è costituito proprio dalla necessità dell’eliminazione dell’errore giudiziario, dato che corrisponde alle più profonde radici etiche di qualsiasi società civile il principio del “favor innocentiae”, da cui deriva a corollario che non vale invocare alcuna esigenza pratica – quali che siano le ragioni di opportunità e di utilità sociale ad essa sottostanti – per impedire la riapertura del processo allorché sia riscontrata la presenza di specifiche situazioni ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario e dell’ingiustizia della sentenza irrevocabile di condanna” (Sez. un., Pisano, cit.).

Da tale dato di presupposizione discende il senso e la portata del richiamo all’art. 24 Cost., sottolineato in più occasioni dalla Corte costituzionale, secondo cui “è necessario garantire l’esigenza di altissimo valore etico e sociale, di assicurare, senza limiti di tempo ed anche quando la pena sia stata espiata o sia estinta, la tutela dell’innocente, nell’ambito della più generale garanzia, di espresso rilievo costituzionale, accordata ai diritti inviolabili della personalità” (sentenza n. 28 del 1969).

La Corte di cassazione, a sua volta, ha spiegato come la revisione assolva alla essenziale funzione di “sacrificare il rigore delle forme alle esigenze insopprimibili della verità e della giustizia reale; così da ribadire che essa non è ricollegabile tanto all’interesse del singolo ma piuttosto all’interesse pubblico e superiore alla riparazione degli errori giudiziari, facendo prevalere la giustizia sostanziale sulla giustizia formale” (Sez. un., Pisano., cit.).

Nel codice vigente la predetta funzione è notevolmente rafforzata e ampliata, considerato che l’art. 631 stabilisce – a differenza di quanto previsto dagli artt. 554, n. 3, 555 e 566, comma 2, del codice del 1930 – che la revisione è ammessa anche se l’esito del giudizio possa condurre al proscioglimento per insufficienza di prove. Si è tuttavia aggiunto come proprio il carattere straordinario della impugnazione in esame e la sua attitudine a superare il giudicato giustifichi i suoi limiti di ammissibilità; l’istituto è infatti finalizzato a realizzare un equilibrato bilanciamento tra opposti interessi mediante soluzioni normative dalle quali traspare che “la revisione è necessariamente subordinata a condizioni, limitazioni e cautele, nell’intento di contemperarne le finalità con l’interesse fondamentale in ogni ordinamento alla certezza e stabilità delle situazioni giuridiche ed all’intangibilità delle pronunzie giurisdizionali di condanna, che siano passate in giudicato” (Corte cost. n. 28 del 1969; nello stesso senso, più recentemente, Corte cost., n. 129 del 2008).

L’esigenza di bilanciamento si realizza nelle linee portanti della disciplina dell’istituto che sono espressione di scelte di valore che si traducono nella elencazione dei casi che legittimano la richiesta di revisione e nella individuazione della fondamentale condizione per l’ammissione della domanda, consistente nella necessità che siano dedotti elementi tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto.

In tale contesto si colloca il principio secondo cui per prove nuove rilevanti, a norma dell’art. 630, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate, neanche implicitamente, purché non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l’omessa conoscenza da parte di quest’ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell’errore giudiziario (Sez. U., n. 624 del 26/09/2001, dep. 2002, Pisano, Rv. 220443).

Dunque, una prova sopravvenuta ovvero una prova preesistente e non “deducibile” – nel senso che la parte non aveva potuto a suo tempo portarla alla cognizione del giudice per causa di forza maggiore o per fatto del terzo o perché materialmente “scoperta” successivamente – ovvero, ancora, una prova dedotta ma nemmeno implicitamente valutata.

La prova, tuttavia, oltre ad essere “nuova” deve possedere il necessario requisito della obiettiva esistenza e della “dimostratività”, ai fini dell’accertamento, dell’errore di giudizio da rescindere. Il novum posto a base di tale giudizio deve dunque presentarsi, nel quadro di un ponderato scrutinio che tenga conto anche delle prove a suo tempo acquisite, come un fattore che determini una decisiva incrinatura del corredo fattuale sulla cui base si è pervenuti al giudicato oggetto di revisione, dal momento che, ove così non fosse, qualsiasi elemento in ipotesi favorevole potrebbe essere evocato a fondamento di un istituto che, da rimedio straordinario, si trasformerebbe ineluttabilmente in una non consentita impugnazione tardiva. Un fattore obiettivo, un fatto accertato nella sua obiettività che disarticoli il corredo fattuale posto a fondamento della sentenza di condanna. Ai fini dell’esito positivo del giudizio di revisione, la prova nuova deve, cioè, condurre all’accertamento – in termini di ragionevole sicurezza – di un fatto la cui dimostrazione evidenzi come il compendio probatorio originario non sia più in grado di sostenere l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio (Sez. 5, n. 24070 del 27/4/2016, Rv. 267067, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi il provvedimento di inammissibilità di una richiesta di revisione fondata su una perizia avente carattere “esplorativo”; nello stesso senso Sez. 5, n. 34515 del 18/06/2021, Rv. 281772).

La previsione normativa della regola di giudizio dell'”al di là di ogni ragionevole dubbio” non ha, cioè, introdotto un diverso e più restrittivo criterio di valutazione della prova ma ha codificato il principio giurisprudenziale secondo cui la pronuncia di condanna deve fondarsi sulla certezza processuale della responsabilità dell’imputato. Il dato probatorio introdotto nel giudizio di revisione, per poter innescare il ragionevole dubbio sulla tenuta dimostrativa delle prove originariamente poste a fondamento della condanna dell’imputato, deve innanzi tutto potersi ritenere affidabile, cioè idoneo a riscontrare in termini di ragionevole certezza un fatto.

In altri termini, ai fini dell’esito positivo del giudizio di revisione, la prova nuova deve portare all’effettivo accertamento di un fatto, la cui dimostrazione deve poi evidenziare come il compendio probatorio originario non sia più in grado di sostenere l’affermazione della penale responsabilità dell’imputato oltre ogni ragionevole dubbio. L’esito della valutazione comparativa è dunque effetto dell’acquisizione di un dato probatorio certo, fondato.