È arrivato alle battute finali il processo palermitano al leader leghista Matteo Salvini nel quale è chiamato a rispondere delle accuse di sequestro di persona e rifiuto d’atti d’ufficio per l’asseritamente illegittimo divieto di sbarco imposto a 147 migranti che si trovavano a bordo della nave Open Arms dell’omonima ONG spagnola (a questo link per una nostra riassunzione dei termini dell’accusa e dei fatti sottostanti).
Alla richiesta di condanna a sei anni di reclusione presentata dalla Procura di Palermo (a questo link per un’analisi dettagliata delle proposizioni accusatorie) è seguita nell’udienza del 18 ottobre 2024 la richiesta di assoluzione per insussistenza del fatto formulata dalla Senatrice Giulia Bongiorno.
Il processo è stato quindi rinviato al 20 dicembre 2024 per eventuali repliche e per la camera di consiglio conclusiva.
La tesi difensiva
La stampa ha riportato diffusamente le proposizioni essenziali sulle quali l’avvocata Bongiorno ha fondato la difesa (qui, tra i tanti, il link al resoconto di Giovanni Bianconi per Il Corriere della Sera).
Si apprende così che la tesi di fondo è stata che l’ONG Open Arms si sia sottratta deliberatamente alle varie possibilità di soluzione offerte dal Ministero dell’Interno, rifiutandole una dopo l’altra, in esecuzione di un progetto finalizzato ad indurre imbarazzo e riprovazione nell’opinione pubblica per la sorte dei “poveri migranti” sballottati in mezzo al mare.
Open Arms, secondo la Bongiorno (a questo link per le sue dichiarazioni ai giornalisti all’uscita dal Tribunale), voleva provocare un forte stigma sociale verso Matteo Salvini e la sua linea dei “porti chiusi” e creare le condizioni perché fosse allontanato dalla guida del Ministero dell’Interno.
La migliore conferma di questo progetto – ha dichiarato l’avvocata – è nel commento, comprovato da un video girato il 20 agosto 2019, di un dirigente dell’ONG subito dopo lo sbarco dei migranti: “Non siamo contenti perché abbiamo toccato terra ma perché è caduto il ministro dell’Interno Salvini”.
Ulteriori conferme, sempre secondo la Bongiorno, deriverebbero dalla rotta seguita da Open Arms che, secondo la sua ricostruzione, “ha bighellonato per giorni, dal 2 al 10 agosto, mentre in 48 ore poteva tranquillamente raggiungere un porto spagnolo, dove doveva andare visto che batteva bandiera spagnola, oppure un Tunisia”.
Condotta, questa, che sembra derivare da una pretesa senza fondamento giuridico perché “Esiste il diritto allo sbarco, certo, ma non quello di scegliere, quando, dove e chi”.
Non solo: il movimento a pendolo della nave in quell’arco di tempo legittima il sospetto che Open Arms stesse aspettando di incrociare un barcone di cui i suoi responsabili avevano avuto notizia prima che fossero diffusi allarmi e diramate richieste di soccorso.
La Bongiorno ha quindi stigmatizzato questa condotta perché “Una cosa è soccorrere e una cosa è prendere appuntamenti; una cosa è imbattersi nei migranti e una cosa è concordarne la consegna”.
Beninteso, la discussione della Senatrice Bongiorno è stata ben più estesa e capillare e, del resto, è ben nota la sua propensione all’approfondimento sistematico di qualsiasi questione possa risultare di interesse per le difese che assume, fosse anche la più marginale.
Poche note conclusive
La tavola per i giudici palermitani è adesso completamente apparecchiata: ognuna delle parti processuali ha offerto il suo contributo e lo ha fatto in modo accurato, argomentato, animato da profonde convinzioni giuridiche e metagiuridiche.
Il conflitto tra accusa e difesa non potrebbe essere più profondo: un imputato che si è servito cinicamente del suo ruolo istituzionale per assecondare la sua visione ideologica e sfruttarne i risultati “sul campo”, così enfatizzando la sua immagine di unico ed estremo difensore dei confini nazionali dall’assalto dei trafficanti di vite umane; oppure un responsabile uomo delle istituzioni, fedele al suo programma politico ma comunque pronto a tendere la mano ai migranti “sballottati” in mare ed impedito a farlo per l’ostruzionismo di una ONG che voleva farlo cadere.
Ai giudici di Palermo è chiesto quindi di comprendere, richiamando lo spunto poetico inserito nel titolo, per chi fosse più dolce, e soprattutto più utile politicamente, far correre ai migranti il rischio di naufragare nelle acque del Mediterraneo.
Si vedrà e ciò che vedremo – il verdetto palermitano – avrà conseguenze che andranno ben al di là del giudizio.
Una cosa è comunque certa: quale che sia la verità che emergerà, non potrà che essere una brutta storia di cui i migranti sono stati le vittime.
