Pregresso “bagaglio culturale” di un indagato extracomunitario: ininfluente, quale che sia, se detiene tre quintali di marijuana (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 35734/2024, udienza del 29 maggio 2024, pronunciata in un caso di detenzione di un cospicuo quantitativo di sostanza stupefacente, ha negato qualsiasi possibile rilievo al diverso “bagaglio culturale” dell’accusato di nazionalità cinese.

In fatto

Il Tribunale per il riesame, pronunziando ai sensi dell’art. 309 cod. proc. pen., con ordinanza del 6 – 27 febbraio 2024 ha confermato il provvedimento con il quale il GIP il 20 gennaio 2024 ha applicato – anche – a SY la misura cautelare della custodia in carcere per detenzione e coltivazione di ingente quantità di sostanza stupefacente.

Quanto alla contestazione, nell’ordinanza impugnata si legge che ufficiali di polizia giudiziaria, fatto accesso in un «opificio sito nella zona industriale di C. […,] rinvenivano al suo interno Sy insieme al altri due indagati, nonché un impianto di produzione di marijuana.

Nella struttura, la p.g. rinveniva inoltre un ungente quantitativo di sostanza stupefacente del tipo marijuana, pari a circa 303 kg, nonché circa 2877 piante ancora a dimora, per un peso stimato di circa 189 kg, oltre a materiale strumentale al ciclo di produzione.

Ricorso per cassazione

Ciò posto, ricorre per la cassazione dell’ordinanza l’indagato, tramite difensore di fiducia, affidandosi a quattro motivi con cui denunzia promiscuamente violazione di legge e vizio di motivazione.

Con il primo motivo lamenta violazione di legge (artt. 273-274 cod. proc. pen.) in merito alla non ritenuta inescusabilità dell’errore sulla legge penale da parte dell’imputato, ai sensi dell’art. 5 cod. pen., alla luce della nota sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 23-24 marzo 1988 (i principi espressi nella cui motivazione si richiamano in sintesi nel ricorso), e, allo stesso tempo, illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Ad avviso della difesa, l’indagato si sarebbe limitato ad annaffiare le piante nella assoluta convinzione della liceità dell’attività, in quanto in tal senso rassicurato dai “titolari” dell’opificio. La prova della buona fede del ricorrente discenderebbe dalla considerazione del disagio sociale dell’indagato: extracomunitario con basso livello di istruzione, non conoscenza della lingua italiana, da breve tempo in Italia, da soli due mesi, sempre rinchiuso nel capannone senza mai uscirne, senza alcuna socializzazione con persone diverse dai due compagni “ristretti” con lui e dai “titolari”.

A tali aspetti il collegio non avrebbe attribuito il giusto peso.

Fortemente illogica sarebbe l’affermazione del Tribunale per il riesame circa la severità della disciplina sul controllo degli stupefacenti in Cina, in quanto, anche ove ciò fosse, non si possono trarre dal «pregresso bagaglio culturale» argomenti circa la effettiva conoscenza da parte dell’indagato, nel concreto contesto dato, della disciplina vigente in Italia. Si sarebbe in presenza, dunque, di una situazione di vera e propria “ignoranza inevitabile” da parte di persona che, conformemente alla cultura del Paese di provenienza, ha soggezione verso il datore di lavoro, cui presta sostanzialmente cieca obbedienza. Dunque, SY non avrebbe avuto motivo di mettere in dubbio quanto gli era stato detto dai suoi “titolari”; né avrebbe potuto nutrire sospetti circa la liceità dell’attività, essendo retribuito con (soli) 500,00 euro al mese, somma distante anni-luce dai possibili ricavi della eventuale vendita di un’ingente quantità di stupefacente. Con il secondo motivo censura violazione di legge (artt. 47-48 cod. pen. e 273-274 cod. proc. pen.) e, al contempo, difetto di motivazione per essere stata la condotta contestata all’indagato, in realtà, determinata da un errore sul fatto indotto dai datori di lavoro, i quali lo avrebbero ingannato rassicurandolo che «questo non fa niente, questa pianta non fa niente, non succede nulla», come dichiarato nell’interrogatorio, e che, quindi, si trattava di una normale e lecita attività lavorativa. La condotta, dunque, non ‘sarebbe stata posta in essere con coscienza e volontà.

Con il terzo motivo critica violazione di legge (art. 273 cod. proc. pen.) e vizio di motivazione in merito alla ritenuta sussistenza della gravità indiziaria.

Non sarebbero stati presi in considerazione gli elementi sviluppati dalla difesa, avendo l’indagato chiarito nell’interrogatorio di essere giunto nello stabilimento a novembre 2023, di essere stato rassicurato dai titolari circa la liceità della condotta, di essere stato tenuto ristretto “h24”, dormendo all’interno, in quanto minacciato, essendo le uscite videosorvegliate con telecamere, non conoscendo il territorio circostante né parlando la lingua italiana, essendo privo di denaro, essendo, insomma, vittima del reato di sequestro di persona ex art. 605 cod. pen.

Infine, il quarto ed ultimo motivo ha ad oggetto la sussistenza delle esigenze cautelari del pericolo di fuga e di recidiva, lamentandosi violazione dell’art 274 cod. proc. pen. e difetto di motivazione.

Le circostanze di fatto rappresentate in precedenza (con particolare riferimento a quella di essere stato tenuto segregato ricevendo ordini) farebbero emergere l’assenza di rischio di recidiva, anche perché tutta l’area ed il materiale sono stati posti sotto sequestro; e l’eventuale rischio di fuga, essendo il soggetto in possesso di valido passaporto e privo di domicilio in Italia, si sarebbe potuto fronteggiare, ad avviso del ricorrente, anche con «misura cautelare meno gravosa, quale quella degli arresti domiciliari da eseguire presso una struttura pubblica anche attraverso l’uso del braccialetto elettronico» (così alla p. 13 del ricorso).

Si chiede, quindi, l’annullamento dell’ordinanza impugnata.

Decisione della Corte di cassazione

Il ricorso è manifestamente infondato, per le seguenti ragioni.

Tutti i motivi (il primo: si sarebbe in presenza di un errore di diritto rilevante ex art. 5 cod. pen.; il secondo: l’indagato verserebbe in situazione di errore di fatto, siccome ingannato dal suo “titolare”; il terzo: in tema di gravità indiziaria, che sarebbe insistente, poiché SY sarebbe stato costretto da altri; il quarto: in tema di esigenze cautelari) sono, in realtà, la mera riproposizione delle stesse questioni già poste dalla difesa al Tribunale per il riesame e che vengono meramente ripresentate nel ricorso di legittimità senza svolgere il necessario confronto critico con le argomentazioni del provvedimento impugnato.

In particolare, hanno escluso i giudici di merito di essere in presenza di un errore, di diritto o di fatto, richiamando pertinente giurisprudenza costituzionale e di legittimità e ritenendo essere l’indagato nella concreta situazione in possesso di un bagaglio di conoscenze tali da comprendere la illiceità della condotta per l’ordinamento italiano.

La tesi della costrizione da parte dei datori di lavoro è stata confutata, attesa la emersa possibilità per l’indagato di allontanarsi dal capannone.

La consistenza della sostanza rinvenuta e la estensione del fenomeno sono state ritenute indicative di collegamenti con ambienti criminali di elevato spessore.

L’assenza di un domicilio del ricorrente in Italia è stata valutata negativamente sotto il profilo della possibilità di applicazione di misure meno gravose.

L’impugnazione, peraltro, è in larga parte costruita in fatto e su affermazioni meramente avversative rispetto alla ricostruzione effettuate ed alle valutazioni svolte dai giudici di merito, trascurandosi da parte del ricorrente che «In tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito» (ex plurimis, Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, Rv. 280601) e che «In tema di giudizio di legittimità, la cognizione della Corte di cassazione è funzionale a verificare la compatibilità della motivazione della decisione con il senso comune e con i limiti di un apprezzamento plausibile, non rientrando tra le sue competenze lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione» (tra le numerose, Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504).

Essendo, dunque, il ricorso inammissibile e non ravvisandosi ex art. 616 cod. proc. pen. assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte costituzionale, sentenza n. 186 del 7-13 giugno 2000), alla declaratoria di inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della sanzione pecuniaria nella misura, che si ritiene congrua e conforme a diritto, indicata in dispositivo.

2 commenti

    1. La violenza in ambito coniugale è sanzionata penalmente e non esistono esimenti o attenuanti specifiche di tipo culturale. Se fossero prese decisioni che smentiscono questa condizione normativa, sarebbero ovviamente censurabili.

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