Reati contro il patrimonio ed esimente di cui all’art. 649, cod. pen.: applicabile in via analogica al convivente more uxorio? (Riccardo Radi)

La Cassazione sezione 2 con la sentenza numero 28049/2024 ha stabilito che in tema di delitti contro il patrimonio, l’esimente di cui all’art. 649, cod. pen., avendo natura di causa di esclusione della punibilità in senso stretto e non di causa di esclusione della colpevolezza, non risulta applicabile, in via analogica, al convivente “more uxorio“.

Vediamo il percorso seguito per escludere l’applicazione dell’esimente prevista dall’articolo 649 c.p.

La Suprema Corte, premette che in realtà, la motivazione della sentenza impugnata perviene alla conclusione secondo cui la causa soggettiva di esclusione della punibilità prevista per il coniuge dall’art. 649 cod. pen. non si estende al convivente more uxorio, sulla base di una giurisprudenza (Sez. 5, n. 28638 del 21/09/2015, Rv. 267367) da ritenersi superata da una più ampia riflessione sulla questione da parte delle Sezioni unite; indirizzo – pure richiamato dalla corte territoriale – che aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 cod. pen. nella parte in cui non estende la causa di non punibilità da essa prevista ai rapporti di convivenza (Sez. 5, n. 37873 del 23/05/2019, Rv. 277757.

In motivazione la Suprema Corte aveva evidenziato che l’introduzione, da parte del d.lgs. 19 gennaio 2017, n. 6, dell’art. 574-bis cod. pen. e del comma 1-bis all’art. 649 cod. pen. rendeva palese l’intento del legislatore di voler attribuire rilievo, ai fini dell’operatività della causa di esclusione della pena in esame, all’esistenza di una convivenza qualificata, differenziandola quindi da quella more uxorio).

Il problema, per quanto d’interesse nel caso in esame, è se anche la causa di non punibilità di cui all’art. 649 cod. pen. per i fatti previsti dal titolo XIII del Libro II del Codice penale (delitti contro il patrimonio, artt. 624 e segg.) e, quindi, per la truffa, sia applicabile in via analogica al convivente more uxorio, nel senso di escludere la punibilità se la vittima sia legata all’autore del reato da una relazione familiare de facto. 

Premesso che il “silenzio” sulle coppie di fatto da parte della c.d. legge Cirinnà del 2016 acquista un significato neutro, spiegabile con l’obiettivo principale della legge di occuparsi delle c.d. unioni civili, e che le convivenze di fatto sono oggetto di una regolamentazione dovuta, soprattutto, agli interventi della giurisprudenza, la pronuncia delle sezioni unite ha individuato le coordinate ermeneutiche nell’ambito di alcuni principi fondamentali del diritto penale, in un’ottica sistematica tesa alla tutela dei diritti nel perimetro circoscritto nel quale si muove l’interprete, in assenza di un intervento legislativo ad hoc.

All’esimente di cui all’art. 384, primo comma, cod. pen. è stata riconosciuta natura di scusante a struttura soggettiva, che investe direttamente la colpevolezza, con delle importanti ricadute sul piano ermeneutico quando si va a verificarne l’applicabilità ai casi non espressamente considerati.

Il tema – con effetto diretto, come accennato, nel presente giudizio – è quello della possibilità di applicazione analogica in bonam partem dell’art. 384, primo comma, cod. pen., una volta che sia stata esclusa la sua natura di causa di non punibilità in senso stretto.

Posto che il divieto di analogia in materia penale, ricondotto all’art. 25 Cost., non si riferisce all’intera materia penale, ma si rivolge alle sole disposizioni punitive, le sezioni unite hanno escluso l’esistenza di impedimenti di carattere costituzionale che consentano operazioni di interpretazione analogica che operino nel senso di un restringimento dei confini di ciò che è penalmente rilevante, ammettendo l’esperibilità di un intervento analogico in bonam partem (in sostanza, l’art. 25, della Costituzione proibisce solo l’analogia in malam partem).

Riconosciuto il carattere “relativo” del divieto di analogia, riferito alla sola interpretazione delle norme penali sfavorevoli, la pronuncia in commento ha quindi verificato i limiti di un’interpretazione analogica in bonam partem, in presenza di una disposizione generale, come l’art. 14 preleggi, che esclude comunque l’applicazione analogica delle leggi eccezionali.

Le cause di non punibilità in senso stretto, in quanto norme eccezionali, sono considerate escluse dall’applicazione analogica.

In questo caso, l’esclusione del ricorso all’analogia è affermata in quanto esse derivano il carattere eccezionale dal fatto che sono riconducibili a valutazioni di opportunità estrinseche rispetto al fatto di reato.

Al contrario, si ritiene che non abbiano carattere eccezionale le cause di giustificazione e quelle di esclusione della colpevolezza, per le quali può riconoscersi uno spazio per l’applicazione analogica. In particolare, per le scusanti si ritiene che possa negarsi la natura di norme eccezionali ogni qualvolta siano espressione di un principio generale dell’ordinamento, impedendo la punizione in presenza di una condotta che viene percepita come inesigibile.

Queste caratteristiche hanno portato ad escludere la valenza eccezionale dell’art. 384, primo comma, cod. pen. – così come intesa dall’art. 14 preleggi — che non introduce una deroga alle norme generali e che può essere oggetto di un procedimento di applicazione analogica proprio perché espressione dei principi generali nemo tenetur se detegere e ad impossibilia nemo tenetur, riconducibili al principio di colpevolezza di cui all’art. 27, comma 1, Cost., sotto il profilo della necessaria valutazione della possibilità per il soggetto di poter agire diversamente.

A diverse conclusioni deve giungersi per quanto riguarda la causa di non punibilità in senso stretto di cui all’art. 649 cod. pen., in cui la rinuncia alla pena – come sottolineato dalle sezioni unite – ubbidisce a ragioni di opportunità politica, che sono del tutto estranee al tema del disvalore oggettivo del fatto o della “situazione esistenziale psicologica dell’agente“, posto che la condotta in tal caso non è stata determinata dalla presenza di circostanze peculiari, che hanno influito sulla volontà dell’agente, sì da non potersi esigere un comportamento alternativo.

La deroga, in via eccezionale, all’applicazione della pena, nonostante la consapevole commissione del reato, non consente analogie, operando il divieto di cui all’art. 14 delle preleggi.