Durata dei colloqui del detenuto col difensore: non più di 50 minuti a Regina Coeli in applicazione di un protocollo scaduto e incostituzionale (Riccardo Radi)

Nel carcere di Regina Coeli è stato posto un limite ai colloqui tra i detenuti e gli avvocati in barba alle norme e sulla base di un protocollo (allegato alla fine del post) che, se pur dichiaratamente sperimentale (e guarda un po’ che bella sperimentazione) e scaduto alla fine del 2023, continua ad essere utilizzato dalla direzione carceraria nel silenzio del COA e della Camera penale di Roma.

La limitazione ai colloqui è stata avallata dai due organismi per andare incontro alle carenze di organico della polizia penitenziaria di Regina Coeli ed implica che l’avvocato non possa chiamare a colloquio più di due assistiti al giorno con il limite di tempo di 50 minuti ciascuno.

Ieri una collega ha affrontato di petto la situazione e, dopo una accesa discussione con la direttrice dell’istituto, ha “ottenuto” di prolungare il colloquio con il proprio assistito oltre i 50 minuti “concordati”.

Siamo arrivati al punto che bisogna alzare la voce per chiedere di poter esercitare un sacrosanto diritto e tutto ciò accade nel colposo silenzio della Camera penale che probabilmente trova disdicevole comunicare ufficialmente al carcere di Regina Coeli che il protocollo firmato e scaduto e che, in ogni caso, un atto amministrativo non può limitare l’esercizio effettivo del diritto di difesa.

Sul punto, la Corte costituzionale ha affermato (ad esempio con le sentenze n. 212 del 1997 e n. 143 del 2013) che tutti i detenuti, anche in forza di condanna definitiva, possono conferire con i difensori senza sottostare nè ad autorizzazioni, nè a limiti di ordine “quantitativo” (numero e durata dei colloqui), e ciò non solo con riferimento a procedimenti giudiziari già promossi, ma anche in ordine a qualsiasi procedimento contenzioso suscettibile di essere instaurato, restando affidata all’Autorità penitenziaria, in correlazione con le esigenze organizzative e di sicurezza connesse allo stato di detenzione, solo la determinazione delle modalità pratiche di svolgimento dei colloqui (individuazione degli orari, dei locali, dei modi di identificazione del difensore e simili), senza alcun possibile sindacato in ordine all’effettiva necessità e ai motivi dei colloqui stessi.

Vale la pena ricordare a chi l’avesse dimenticato un passaggio della sentenza della citata sentenza numero 143/2013 presieduta dal compianto avvocato Frigo, che certamente non si sarebbe mai sognato di firmare protocolli: “È acquisito, nella giurisprudenza di questa Corte, che la garanzia costituzionale del diritto di difesa comprende la difesa tecnica (sentenze n. 80 del 1984 e n. 125 del 1979) e, dunque, anche il diritto – ad essa strumentale – di conferire con il difensore (sentenza n. 216 del 1996): ciò, al fine di definire e predisporre le strategie difensive e, ancor prima, di conoscere i propri diritti e le possibilità offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze pregiudizievoli cui si è esposti (sentenza n. 212 del 1997).

Sostanzialmente sintonica con dette affermazioni è quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale il diritto dell’accusato a comunicare in modo riservato con il proprio difensore rientra tra i requisiti basilari del processo equo in una società democratica, alla luce del disposto dell’art. 6, paragrafo 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (tra le molte, Corte europea dei diritti dell’uomo, 13 gennaio 2009, Rybacki contro Polonia; 9 ottobre 2008, Moiseyev contro Russia; 27 novembre 2007, Asciutto contro Italia; 27 novembre 2007, Zagaria contro Italia).

…. È evidente, per altro verso, come il diritto in questione assuma una valenza tutta particolare nei confronti delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono a trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà difensive.

In questa prospettiva, il diritto del detenuto a conferire con il difensore forma oggetto di esplicito e puntuale riconoscimento in atti sovranazionali, tra i quali la raccomandazione R (2006)2 del Consiglio d’Europa sulle «Regole penitenziarie europee», adottata dal Comitato dei Ministri l’11 gennaio 2006, che riferisce distintamente il diritto stesso tanto al condannato (regola numero 23) che all’imputato (regola numero 98).

Sul versante interno, il codice di procedura penale del 1988 – innovando al regime meno favorevole prefigurato dal codice anteriore – ha sancito il diritto dell’imputato in custodia cautelare a conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della misura; diritto il cui esercizio può essere dilazionato dal giudice, su richiesta del pubblico ministero, solo in presenza di «specifiche ed eccezionali ragioni di cautela» ed entro limiti temporali ristrettissimi: non più di sette giorni, ridotti poi a cinque (art. 104 del codice di procedura penale).

Il nuovo codice di rito non si è occupato, per converso, dell’omologo diritto dei detenuti in forza di condanna definitiva.

In assenza di una norma specifica, anche nella legge di ordinamento penitenziario, si era quindi ritenuto che i colloqui del condannato con il difensore soggiacessero alla generale disciplina relativa ai colloqui con persone diverse dai congiunti e dai conviventi, rimanendo in tal modo subordinati ad un’autorizzazione discrezionale del direttore dell’istituto, basata sulla verifica dell’esistenza di «ragionevoli motivi» (art. 18, primo comma, della legge n. 354 del 1975 e art. 35, comma 1, dell’allora vigente d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431, recante «Approvazione del regolamento di esecuzione della legge 26 luglio 1975, n. 354, recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà»).

Con la sentenza n. 212 del 1997, questa Corte ha ritenuto che un simile regime fosse incompatibile con il principio di inviolabilità del diritto di difesa, dichiarando, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo il citato art. 18 della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevedeva il diritto del condannato a conferire con il difensore fin dall’inizio dell’esecuzione della pena: e ciò, non soltanto in riferimento a procedimenti giudiziari già promossi, ma anche in relazione a qualsiasi procedimento contenzioso suscettibile di essere instaurato.

Nell’occasione, la Corte ha rilevato che «il diritto di conferire con il proprio difensore non può essere compresso o condizionato dallo stato di detenzione, se non nei limiti eventualmente disposti dalla legge a tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti (ad esempio attraverso temporanee, limitate sospensioni dell’esercizio del diritto, come quella prevista dall’art. 104, comma 3, cod. proc. pen. […]), e salva evidentemente la disciplina delle modalità di esercizio del diritto, disposte in funzione delle altre esigenze connesse allo stato di detenzione medesimo: modalità che, peraltro, non possono in alcun caso trasformare il diritto in una situazione rimessa all’apprezzamento dell’autorità amministrativa, e quindi soggetta ad una vera e propria autorizzazione discrezionale».

Per effetto della pronuncia ora ricordata, tutti i detenuti, anche in forza di condanna definitiva, possono quindi conferire con i difensori senza sottostare né ad autorizzazioni, né a limiti di ordine “quantitativo” (numero e durata dei colloqui).

All’autorità penitenziaria resta affidata, in correlazione alle esigenze organizzative e di sicurezza connesse allo stato di detenzione, solo la determinazione delle modalità pratiche di svolgimento dei colloqui (individuazione degli orari, dei locali, dei modi di identificazione del difensore e simili), senza alcun possibile sindacato in ordine all’effettiva necessità e ai motivi dei colloqui stessi”.

Piace pensare, ma la speranza è flebile, che i rappresentanti dei penalisti associati di Roma d’ora in avanti si rifiuteranno di legittimare una prassi che mortifica gravemente il diritto di difesa.

Continueremo, comunque sia, a seguire e ove occorra denunciare la prosecuzione di questa bruttura.