La Cassazione, sezione 4, con la sentenza numero 18374/2024 ha esaminato la questione relativa al mancato avviso circa la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato al momento dell’instaurazione del rito direttissimo e se tale mancanza possa provocare una nullità.
Fatto
La Corte territoriale confermava la sentenza del tribunale con cui P.E. era stato condannato in ordine al delitto ex art. 73, comma 5, DPR 309/90.
Avverso la predetta sentenza P.E., tramite il difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione deducendo due motivi di impugnazione.
Deduce, con il primo, vizi ex art. 606 comma 1 lett. d) cod. proc. pen., lamentando la mancata dichiarazione di nullità degli atti processuali successivi alla convalida dell’arresto dell’imputato ed alla instaurazione del giudizio direttissimo, per omesso avviso all’imputato della facoltà di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Emergendo in proposito un obbligo di completa informazione sulle facoltà esercitabili dall’imputato, a fronte del breve tempo a disposizione dell’imputato nel giudizio direttissimo per effettuare la scelta dell’accesso ad uno dei procedimenti speciali, tra cui rientra la sospensione del procedimento con messa alla prova.
Si aggiunge che una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 451 comma 6 cod. proc. pen. imporrebbe di affermare l’obbligo di informazione in questione anche nel caso di giudizio direttissimo, con conseguente nullità del giudizio stesso in assenza di tale informazione ex art. 178 lett. c) cod. proc. pen. e 24 Cost.
In alternativa, si imporrebbe la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 451, comma 5 cod. proc. pen., come illustrato in ricorso alla luce dell’analisi comparata di altre norme disponenti un tale avviso e di principi sanciti dalla Consulta a tutela del diritto di difesa.
Decisione
La Cassazione premette che l’art. 451 commi 5 e 6 c.p.p. prevedeva originariamente che: “5. Il presidente avvisa l’imputato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato ovvero l’applicazione della pena a norma dell’articolo 444.
6. L’imputato è altresì avvisato della facoltà cli chiedere un termine per preparare la difesa non superiore a dieci giorni. Quando l’imputato si avvale di tale facoltà, il dibattimento è sospeso fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine.“
La Corte costituzionale ha sancito l’illegittimità costituzionale di tali commi ove “interpretati nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all’imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.“.
In tal modo, considerata la peculiare connotazione di speditezza che riguarda il rito direttissimo, il Giudice delle leggi ha ritenuto di salvaguardare il rispetto dell’art. 24 Cost. non prevedendo un’anticipazione dell’avviso di accesso ai riti alternativi al momento dell’instaurazione del giudizio e, piuttosto, eliminando una preclusione interpretativa alla possibilità di richiedere il rito abbreviato o il cd. “patteggiamento” anche dopo la richiesta dell’imputato di utilizzare un termine per approntare la difesa.
In tale prospettiva, non può che escludersi sia che il mancato avviso circa la possibilità di richiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato al momento dell’instaurazione del rito direttissimo possa provocare una nullità, poiché ciò non è previsto dalla legge, ed il principio di tassatività dei casi di nullità degli atti processuali esclude ogni applicazione analogica; sia che possa verificarsi una lesione del diritto di difesa rilevante ai fini della tutela di cui all’art. 24 Cost., posto che la lesione lamentata in ricorso appare esclusa dalla stessa Corte costituzionale, in quanto le prerogative difensive – proporzionalmente ponderate con le esigenze di celerità caratterizzanti il rito direttissimo – sono garantite dal combinato disposto dei commi 5 e 6 dell’art. 451 cod. proc. pen., come integrato dalla detta pronuncia della Corte costituzionale, ovvero attraverso una previsione di un termine per approntare adeguatamente la difesa, non preclusivo rispetto alla richiesta di riti alternativi e quindi, nondimeno, a quella della sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato.
In tale quadro, non appare adeguato il raffronto con l’art. 456, comma 2, c.p.p., rispetto al quale la Corte ha deliberato per l’accoglimento della questione di illegittimità sollevata, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 456, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che il decreto che dispone il giudizio immediato contenga l’avviso della facoltà dell’imputato di chiedere la sospensione del procedimento con messa alla prova».
Prima di tale decisione l’art. 456 c.p.p. stabiliva che il provvedimento giudiziale dovesse comprendere l’avviso che l’imputato possa chiedere il giudizio abbreviato oppure l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (cd. patteggiamento).
Avviso necessario nel rito immediato, poiché la scadenza entro la quale va formulata la domanda di accesso agli ulteriori riti speciali è serrata, corrispondendo al quindicesimo giorno dalla notifica del decreto, tanto per il giudizio abbreviato (comma 1 dell’art. 458 c.p.p.), tanto per il patteggiamento (ultima parte del comma 1 dell’art. 446 c.p.p.) ed una eguale scadenza è stata stabilita per la richiesta di messa alla prova (art. 464-bis comma 2 c.p.p.).
Nondimeno, e come si è visto, la norma censurata non prescriveva l’introduzione del pertinente avviso per la messa alla prova tra i requisiti essenziali del decreto di giudizio immediato.
In proposito è stata evocata dalla Corte costituzionale la giurisprudenza che da lungo tempo qualifica l’accesso ai riti come rilevante modalità di esercizio del diritto di difesa e si è osservato che «quando il termine entro cui chiedere i riti alternativi è anticipato rispetto alla fase dibattimentale, sicché la mancanza o l’insufficienza del relativo avvertimento può determinare la perdita irrimediabile della facoltà di accedervi», l’omissione d’un tempestivo ed esatto avviso della facoltà prevista dalla legge si risolve in una diretta violazione del diritto di difesa (sentenza C . Cost. n. 201 del 2016).
Appare allora chiara la diversità di prospettiva enucleabile nel caso in esame, in cui, come già osservato, e diversamente dal caso immediatamente sopra citato, considerata la connotazione in termini di particolare celerità che riguarda il rito direttissimo, la Corte costituzionale ha ritenuto di salvaguardare il rispetto dell’art. 24 Cost. non prevedendo un’anticipazione dell’avviso di accesso ai riti alternativi rispetto al momento dell’instaurazione del giudizio e, piuttosto, ha eliminato una preclusione interpretativa della possibilità di richiedere il rito abbreviato o il cd. “patteggiamento” anche dopo la richiesta dell’imputato di utilizzare un termine per approntare la difesa.
Preclusione evidentemente insussistente anche per la richiesta di messa alla prova.
Consegue, quindi, anche l’assenza di ogni lesione del principio di ragionevolezza, per aver il legislatore riservato una disciplina diversa a situazioni analoghe, posto che la giurisprudenza costituzionale è consolidata nel senso di ritenere sottratto a detto sindacato l’esercizio, da parte del legislatore, della discrezionalità legislativa in ordine alla disciplina degli istituti processuali, fatto salvo il controllo di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà (cfr., ex plurimis, Corte cost., sentenze n. 20 del 2017, n. 152 del 2016, n. 138 del 2012 e n. 141 del 2011): circostanze, quelle della manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, che tuttavia nella specie non sono state segnalato, né può ritenersi sussistano.
Neppure, va aggiunto, può richiamarsi la previsione di nullità generale di cui all’art. 178, lett. c), cod. proc. pen., poiché la mancata informazione sulla possibilità di richiedere la sospensione del processo con messa alla prova non incide sull’intervento o sull’assistenza dell’imputato.
Emergendo una questione giuridica, per la quale vige il principio per cui il vizio di motivazione non è al riguardo configurabile in quanto le argomentazioni giuridiche delle parti o sono fondate e allora il fatto che il giudice le abbia disattese (motivatamente o meno) dà luogo al diverso motivo di censura costituito dalla violazione di legge, insussistente nel caso concreto per quanto rilevato, o sono infondate, e allora che il giudice le abbia disattese non può dar luogo ad alcun vizio di legittimità della pronuncia giudiziale, si deve anche tenere conto del disposto di cui all’art. 619 comma 1 cod. proc. pen. che consente di correggere, ove necessario, la motivazione, quando la decisione in diritto sia comunque corretta e, nel caso concreto quindi, di integrarla con le considerazioni suesposte (cfr. in tal senso Sez. 1, n. 49237 del 22/09/2016 Rv. 271451 – 01).
