Più accusa e meno difesa, più automatismi probatori e meno garanzie, più pena e meno rieducazione? Non deve essere per forza così: Avvocati, è il momento di farci sentire! (Francesco Bianchi e Riccardo Radi)

Si leggeranno di seguito constatazioni e opinioni transitate in più occasioni e in varie forme su Terzultima Fermata.

L’approssimarsi del congresso nazionale straordinario dell’UCPI, che sarà tenuto a Reggio Calabria tra il 4 e il 6 ottobre, ci spinge tuttavia a riproporle, appellandoci alla pazienza dei lettori, come base programmatica di un impegno al quale, come avvocati e giuristi e prima ancora come cittadini, non vogliamo sottrarci.

Nel 2019 con il Manifesto del Diritto Penale Liberale, l’Unione delle Camere penali italiane, rivendicando la funzione sociale dell’avvocatura e il suo ruolo a difesa di diritti e garanzie di rango costituzionale e internazionale attribuiti ad ogni individuo, riaffermò una visione della Giustizia che mantenesse saldi i principi e le garanzie fondanti un diritto penale liberale e non autoritario.

Sono passati cinque anni da allora, un tempo sufficiente per verificare l’impatto che il Manifesto ebbe tra i decisori pubblici e nelle coscienze delle persone.

L’assunto di partenza dell’UCPI fu che il garantismo penale stesse vivendo una stagione di crisi.

Le tutele formalmente riconosciute a chi subisce il procedimento penale erano state progressivamente disapplicate o impoverite.

Lo stesso fenomeno si registrava riguardo alle sanzioni con l’aumento di quelle atipiche e con la tendenza ad applicarle prima e talvolta a prescindere dal giudizio.

Il legislatore penale, ormai solito intervenire con la logica e gli strumenti dell’emergenza o delegando le sue funzioni all’esecutivo, da un lato varava con allarmante frequenza fattispecie incriminatrici di mero pericolo, retrocedendo la soglia del penalmente rilevante a livelli intollerabili, dall’altro immetteva incessantemente nell’ordinamento procedure para-penali a cognizione sommaria i cui standard dimostrativi erano meno che labili e i cui effetti punitivi erano, di contro, gravi e irreversibili.

Il processo in senso stretto stava progressivamente smarrendo la sua funzione tipica di ambito di accertamento del fatto e della responsabilità, diventando piuttosto luogo dimostrativo della rinnovata combattività dello Stato contro ogni forma di malaffare. Da luogo dell’accertamento del fatto e della responsabilità, il processo si stava tramutando in luogo della mera legittimazione formale della potestà punitiva.

Questo disfacimento tecnico e semantico delle politiche penali attribuiva spazi esagerati al potere giudiziario che vedeva accresciuta a dismisura la sua discrezionalità interpretativa e se ne serviva per alterare l’equilibrio classico tra i poteri fondamentali dello Stato, acquistando un’indebita centralità associata alla pretesa di una superiorità etica sugli altri attori del sistema.

I prodromi del fenomeno, riconducibile a modelli di prevenzione, emergenza ed efficienza, manifestatisi fin dalla fine degli anni Ottanta dello scorso secolo, si erano via via trasformati in una tendenza strutturale che era diventata una valanga negli ultimi anni ed aveva contribuito alla nascita ed all’affermazione di formazioni politiche ed ideologie dichiaratamente populiste.

L’UCPI, allarmata da questo processo degenerativo e dal picco che aveva raggiunto, non intendeva rimanere inerte e si proponeva quindi, attraverso il Manifesto, di agevolare riaffermare le garanzie proprie dell’ambito penale e del loro imprescindibile legame con l’essenza stessa della democrazia.

Adottava un’irrinunciabile chiave di lettura, quella propria del pensiero liberale, cui riconosceva il merito di essere il primo e ancora il più adeguato incubatore delle libertà e dei diritti che ne sono espressione, in assenza dei quali nessun sistema di norme penali può dirsi finalizzato alla promozione umana.

L’UCPI considerava le norme penali come l’ultimo strumento di cui lo Stato deve avvalersi per la prevenzione e repressione di fatti dannosi e le riteneva legittime solo se imponessero il minimo sacrificio necessario e sempre che non attentassero alla dignità umana e non rinnegassero il principio del finalismo rieducativo.

Riteneva altrettanto indispensabile che le norme penali e le previsioni sanzionatorie si fondassero su dati scientifici e criminologici condivisi dalla comunità scientifica.

Si opponeva all’uso dello strumento penale per finalità politico-elettorali, cioè come mezzo per selezionare e raccogliere consenso.

Numerosi principi attenevano al diritto di difesa che nella visione del Manifesto doveva essere inteso nella sua massima ampiezza e al ruolo della pubblica accusa per le cui impugnazioni, ad esempio, si auspicava il rispetto della formula dell’oltre ogni ragionevole dubbio.

Il Manifesto chiudeva infine con una severa stigmatizzazione della proliferazione di procedure para-penali, quali ad esempio quelle di prevenzione personale e patrimoniale, auspicando che venissero pienamente ricondotte nell’alveo della materia penale e quindi circondate dalle tutele proprie dell’ordinamento interno e degli ordinamenti sovranazionali.

A 5 anni di distanza il Manifesto ha contribuito a fermare quella deriva?

Purtroppo, no.

Aumenta sempre di più la distanza tra il pensiero accademico e forense e quello delle compagini politiche (attuali e passate) che determinano le direttrici pubbliche in materia penale.

La stessa distanza si registra rispetto all’opinione pubblica, che, alimentata da un’informazione sensazionalistica, vede nel processo e nella condanna la sublimazione delle istanze vendicative delle persone offese.

La legislazione penale prolifera con la quotidiana introduzione di nuovi reati, spesso già previsti dal Codice penale, aggravanti e aumenti sconsiderati delle pene, inseguendo spasmodicamente eventi di cronaca, e da interventi dal contenuto demagogico e autoritario, chiaramente lesivi dei principi di offensività e tassatività, finalizzati a restringere il diritto di espressione del dissenso nel caso del recente DDL Sicurezza.

Il processo vede il ruolo della difesa e del diritto all’accertamento della responsabilità sempre più marginale, come nel caso della riforma delle impugnazioni e della trattazione scritta e nell’abbandono del processo accusatorio. 

Non mancano adesioni importanti a questi allarmi, se ne dibatte negli ambiti più recettivi, ma nessuna iniziativa ha avuto finora la forza di stimolare una mutata sensibilità e di arginare questa deriva antiliberale.

E, tuttavia, per rispondere alla domanda essenziale, pensiamo che non si possa rinunciare all’impegno individuale e collettivo: i manifesti servono ancora a qualcosa, non fosse altro che per tenere viva l’attenzione su temi rilevanti per ogni componente della comunità e, comunque in omaggio al detto di Sciascia: “a futura memoria, se la memoria ha un futuro”.

Si può fare qualcosa? Certo che sì.

Si può e si deve riflettere sui fenomeni che il Manifesto dell’UCPI giudica allarmanti, si deve tenere desta l’attenzione, e, nel frattempo, ci si può schierare, si può uscire dall’invisibilità e prendere posizione in maniera forte.

Ci auguriamo che il tema possa essere sollevato con forza al Congresso UCPI che si svolgerà a Reggio Calabria fra il 4 ed il 6 ottobre prossimo per rivitalizzare quanto scritto nel maggio del 2019.

Avvocati Francesco Bianchi e Riccardo Radi