La Cassazione sezione 6 con la sentenza numero 35850 depositata il 25 settembre 2024 ha stigmatizzato l’eccessivo formalismo di una corte di merito che ha dichiarato inammissibile l’impugnazione perché l’elezione di domicilio non è stata depositata contestualmente all’atto di appello ma inviata successivamente via pec.
La Suprema Corte ha stabilito che deve essere cassata con rinvio la sentenza d’appello che dichiara inammissibile il gravame laddove con l’atto di impugnazione non risulta depositata la dichiarazione o elezione di domicilio dell’imputato, benché l’atto indichi testualmente che l’interessato è “elettivamente domiciliato presso lo studio del procuratore” e il difensore trasmetta in seguito la dichiarazione dell’imputato autenticata dal legale, che conferma l’elezione di domicilio in precedenza indicata nell’atto di impugnazione, dovendosi ritenere che, anche a voler ritenere l’atto di impugnazione difforme rispetto al modello legale per non avere depositato la parte alcunché, attraverso l’integrazione l’atto raggiunga il suo scopo, cioè collegare l’atto di impugnazione e la citazione in giudizio al fine di agevolare la notificazione della citazione e rendere più agevole la celebrazione dei processi.
Ricordiamo che la giurisprudenza di legittimità ha già ritagliato spazi di differente applicazione dell’art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen., per posizioni specifiche di imputati, con l’obiettivo di rendere più razionale e conforme ai principi del fair trial previsto dall’art. 6 CEDU la lettura di disposizioni processuali che impongono oneri di attivazione per le parti funzionali alla miglior organizzazione della fase impugnatoria ed alla conoscenza effettiva dell’udienza fissata per il giudizio.
Così, per coloro i quali risultino detenuti al momento della proposizione del gravame, non può applicarsi la nuova disposizione, posto che tale adempimento risulterebbe privo di effetto, in ragione della vigenza dell’obbligo di procedere alla notificazione a mani proprie dell’imputato detenuto, e comporterebbe la violazione del diritto all’accesso effettivo alla giustizia sancito dall’art. 6 CEDU (Sez. 2, n. 38442 del 13/9/2023, Rv. 285029; Sez. 2, n. 33355 del 28/6/2023, Rv. 285021).
Come si è sottolineato nella sentenza n. 38442 del 2023, l’applicazione dell’art. 581, comma 1-ter, cod. proc. pen. anche all’imputato detenuto violerebbe, oltre che l’art. 3 Cost., l’art. 6 della CEDU, che impone il pieno rispetto del diritto di accesso effettivo alla giustizia per le decisioni relative al «merito di qualsiasi accusa penale» anche nel giudizio di appello e che – pur ammettendo che il diritto di presentare un ricorso possa essere subordinato a determinate condizioni previste dalla legge – richiede che i giudici nell’applicare le relative norme procedurali “evitino un eccessivo formalismo che pregiudicherebbe l’equità del procedimento“.
In particolare, applicando i principi generali suddetti alla fattispecie in esame, deve essere sottolineato come, nella giurisprudenza della Corte Edu, sia leggibile una linea interpretativa consolidata che va nel senso, più volte affermato, di ritenere che l’applicazione da parte delle Corti nazionali di formalità ingiustificate o irragionevoli da osservare per proporre un ricorso (e a maggior ragione un’impugnazione di merito in appello) rischia di violare il diritto di accesso alla giustizia, compromettendolo nella sua essenza, quando l’interpretazione eccessivamente formalistica della legge ordinaria impedisce di fatto l’esame nel merito del ricorso proposto dall’interessato (Corte Edu, 12 luglio 2016, Reichman c. Francia; 5 novembre 2015, Henrioud c. Francia; Beles e a. c. Repubblica ceca, 2002, Zvols19? Zvolské c. Repubblica Ceca, 2002).
La giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha attribuito al diritto di accesso alla tutela giurisdizionale, implicito nell’art. 6 § 1 della Convenzione (come chiarito sin dalla pronuncia Golder c. Regno Unito del 21 febbraio 1975), un ruolo sempre più centrale nell’architettura complessiva del “processo equo” disegnato dalla CEDU, nella consapevolezza che una moderna democrazia e lo Stato di diritto non possono garantire adeguata tutela al sistema europeo dei diritti umani senza un apparato giurisdizionale credibile, indipendente, imparziale ed accessibile a tutti, come è stato ricordato anche da autorevole dottrina.
La ricostruzione dei principi elaborati dalla giurisprudenza della Corte Edu in tema si ritrova in alcune importanti sentenze più recenti della Grande Camera: Zubac c. Croazia, GC, del 5 aprile 2018 (v. soprattutto §§ 76-82); Succi c. Italia del 28 ottobre 2021 e Willems e Gorjon c. Belgio del 21 settembre 2021, quest’ultima in tema di inammissibilità del ricorso dovuta alla mancanza di indicazione, da parte del difensore, del possesso dei requisiti di legittimazione e abilitazione. Attraverso i passaggi motivazionali cruciali di tali pronunce è possibile comprendere come la Corte consideri fisiologiche possibili restrizioni all’accesso presso le Corti supreme, che possono ritenersi, quindi, ammissibili se giustificate da un fine legittimo e se proporzionate.
Sotto il primo profilo, deve mettersi in luce che – secondo la Corte Edu – il fine perseguito dai “sistemi di filtraggio” alle impugnazioni proposte dinanzi alle Corti supreme (soprattutto le corti di cassazione ed i tribunali superiori di ultima istanza), vale a dire la razionalizzazione del contenzioso e la necessità di assicurare un accesso qualitativamente controllato delle impugnazioni, affinché il giudice di esse possa preservare il suo ruolo e la sua funzione per assicurare la buona amministrazione della giustizia, radica del tutto ragionevolmente le sanzioni di inammissibilità.
In particolare, per la Corte di cassazione, il fine perseguito dai “sistemi di filtraggio” tramite inammissibilità si risolve nella garanzia, in ultima istanza, dell’applicazione uniforme e della corretta interpretazione del diritto nazionale (nomofilachia): nella sentenza Succi c. Italia questi elementi valutativi, ad esempio, sono stati considerati e valorizzati per argomentare della legittimità, in linea astratta, del principio di autosufficienza del ricorso, che persegue, quindi, quei fini legittimi anzidetti, tendendo a semplificare l’attività della Corte di cassazione e, allo stesso tempo, ad assicurare la certezza del diritto (sécurité juridique), nonché, ancora una vota preme ribadirlo, la buona amministrazione della giustizia.
E’ soprattutto, però, con riguardo al tema della proporzionalità che la giurisprudenza di Strasburgo sembra essere molto rigorosa, indicando la necessità di una stringente valutazione in concreto della ragionevolezza della restrizione al diritto di accesso, da svolgersi tenendo in considerazione, di regola, alcuni parametri essenziali, tra questi: la prevedibilità della restrizione; la responsabilità della parte nei cui confronti viene dichiarata l’inammissibilità per gli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l’accesso alla giurisdizione superiore; l’assenza di indici di “formalismo eccessivo” nell’applicazione della regola processuale restrittiva, cui segua l’inammissibilità.
Ancor più tale parametro di proporzionalità della sanzione, con cui si determina un diniego di accesso al giudizio di impugnazione, deve essere attentamente maneggiato dal giudice d’appello che, nel nostro sistema ordinamentale, pur godendo oramai di prerogative di declaratoria di inammissibilità in parte analoghe a quelle della Corte di cassazione (cfr. il rimodellato art. 581 cod. proc. pen.), rimane un giudice di seconda istanza “piena” per le parti processuali.
