Cassazione penale, Sez. 3^, sentenza n. 7875/2022, udienza del 21 gennaio 2022, ha ricordato che la scelta di un trattamento sanzionatorio che si discosta notevolmente dal minimo edittale esige, per consolidata giurisprudenza, una specifica motivazione che non può essere sostituita da formule stereotipate come “pena equa” o “congruo aumento” o da richiami generici alla gravità del reato o alla capacità a delinquere.
La questione posta dal ricorrente
Il ricorrente, tramite il suo difensore, ha dedotto la violazione di legge e il vizio di motivazione (art. 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p.) per essere stato condannato, in quanto responsabile del reato di distribuzione per il consumo di sostanze alimentari con cariche macrobiotiche superiori ai limiti previsti, ad un’ammenda di € 10.000, ben più alta del minimo edittale fissato in € 309,88, senza che la decisione impugnata spiegasse adeguatamente le ragioni di una sanzione così elevata.
La decisione della Corte di cassazione
Il collegio di legittimità ha accolto il ricorso, ravvisando un vizio di motivazione.
Ha osservato che la scelta di un trattamento sanzionatorio che si discosta notevolmente dal minimo edittale richiede, per consolidata giurisprudenza, una specifica motivazione.
Non può dirsi tale quella affidata a ad espressioni prive di reale capacità definitoria ed esplicativa, come ad esempio “pena equa” o “congruo aumento” e sono ugualmente insoddisfacenti richiami generici alla gravità del reato o alla capacità a delinquere.
Ha conseguentemente annullato con rinvio la sentenza impugnata.
Note di commento
Autorevoli studiosi affermano che la determinazione della pena da infliggere al reo e i relativi criteri di commisurazione sono una sorta di buco nero del giudizio penale poiché a nessuno (verosimilmente neanche al giudice) è dato comprendere perché, a fronte di una certa condotta penalmente rilevante, segua una certa pena piuttosto che un’altra più bassa o più alta.
Lo afferma, tra gli altri, Giovanni Fiandaca, nel suo articolo “Pena “giusta” per un giusto processo, pubblicato sul Foglio il 25 ottobre 2021 (consultabile a questo link): “pubblici ministeri e giudici sono soliti dedicare alla pena e alla sua concreta determinazione un livello di attenzione e uno spazio argomentativo assai ridotti, e non di rado essi si limitano a pochi accenni riproponendo pigre formulette di stile che fanno sintetico richiamo dei criteri indicati nell’art. 133 del codice penale. Così stando le cose, la commisurazione giudiziale della pena finisce, nella prassi concreta, non solo col risultare oscura o poco trasparente, ma pure col risentire di fattori anche emotivi di condizionamento – connessi alla sensibilità personale del singolo giudicante – che sfuggono a un controllo razionale e che prescindono, altresì, dal fare riferimento alla finalità rieducativa che la Costituzione espressamente assegna alle sanzioni penali”.
Il giurista siciliano fa tuttavia un importante distinguo: mentre è sostanzialmente impossibile un calcolo preciso della pena davvero giusta nel singolo caso, è per contro non solo possibile ma anche relativamente facile comprendere quando una pena è ingiusta per eccesso o difetto rispetto alla consistenza del fatto di reato per il quale è stata inflitta.
Ciò nondimeno, aumenta progressivamente il rischio che la pena concretamente inflitta sia quella che viene “sentita” come più adeguata ad aspettative collettive, che a loro volta possono essere esacerbate dagli umori del momento, e scompare sullo sfondo la finalità rieducativa che i Costituenti avevano assegnata alla sanzione penale.
E poiché siamo ancora profondamente immersi nella stagione del “piacere punitivo” nel senso accreditato da Didier Fassin della punizione come una tra le più potenti passioni contemporanee, il sentire medio del giudice, che segue all’analogo sentire del legislatore, va nella direzione dell’eccesso di pena piuttosto che del difetto.
E dal momento che più un sentire è conforme allo spirito dei tempi tanto meno gli si dedicano spazi di ripensamento, ecco che pare naturale e scontato non solo punire una contravvenzione con una sanzione pari a più di trenta volte il minimo edittale ma anche non dedicare un rigo a spiegare questo rigore.
È così e basta.
I giudici di legittimità hanno detto invece di no, che non basta affatto.
Meglio così, decisamente.
