Rapper in Cassazione perché cantano e ballano sulle tombe dei caduti della Grande Guerra (Riccardo Radi)

La Cassazione si è dovuta occupare di chi, all’interno di un sacrario militare, pone in essere un ballo a ritmo “rap” sulle tombe dei caduti, cantando una canzone e della configurabilità del delitto di vilipendio delle tombe.

La vicenda è stata esaminata dalla cassazione sezione 3 con la sentenza numero 24271/2024 che ha stabilito che integra il delitto di vilipendio delle tombe la condotta di chi, all’interno di un sacrario militare monumentale, pone in essere un ballo a ritmo “rap” sulle tombe dei caduti, cantando una canzone, per realizzare ed interpretare un video musicale, poi diffuso mediante internet.

In motivazione, la Suprema Corte ha precisato che il giudice, nel perimetrare la nozione penalmente rilevante di vilipendio, è tenuto a valutare la condotta con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma e verificare che i gesti compiuti o le espressioni utilizzate, pur se non dirette immediatamente contro la “res” normativamente contemplata, producano, in concreto, la lesione del rispetto del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie e, quindi, del senso di pietà ispirato dal ricordo dei defunti.

Fatto

Con l’impugnata sentenza, la Corte di appello di Trieste ha confermato la pronuncia emessa dal Tribunale di Gorizia all’esito di giudizio abbreviato e appellata dagli imputati, la quale aveva condannato E.F. e M.A. alla pena ritenuta di giustizia, condizionalmente sospesa subordinatamente alla corresponsione del risarcimento del danno liquidato in favore della costituita parte civile, in relazione al delitto di cui agli artt. 110, 408 cod. pen., perché, in concorso tra loro, in assenza di qualsivoglia autorizzazione, realizzando ed interpretando un video musicale che li ritraeva mentre erano intenti a ballare e a cantare una canzone dal titolo “C……” all’interno dell’area del Sacrario militare di Redipuglia, ed, in particolare, sopra i gradoni ove sono sepolti i resti dei soldati caduti nella prima guerra mondale, e, in seguito, pubblicandolo on line su un canale YouTube, vilipendevano le tombe e il luogo che è destinato a mantenere viva ed onorata la memoria dei militari caduti.

Decisione

Il bene tutelato dalle fattispecie delittuose racchiuse nel Capo II del Titolo IV del Libro II del Codice penale – ove è collocato l’art. 408 cod. pen. – va individuato, come chiaramente emerge dalla stessa intitolazione della rubrica, nella “pietà dei defunti”, da intendersi nel senso di pietas: locuzione che designa quel diffuso e sentimento, individuale e collettivo, il quale si manifesta nel rispetto tributato ai defunti ed alle cose destinate al loro culto nei cimiteri e nei luoghi di sepoltura.

La pietas per i defunti, in particolare, è un sentimento che attiene all’essere umano in quanto tale anche quando ha cessato di vivere, come proiezione ultra-esistenziale della persona, e ciò indipendentemente dall’adesione a un particolare credo religioso, come, del resto, lascia chiaramente intendere la suddivisione dei Capi contenuti in questo Titolo, che distingue, appunto, i “Delitti contro le confessioni religiose” – rubrica introdotta dall’art. 10, comma 2, I. 24 febbraio 2006, n. 85, che ha sostituto la precedente “Delitti contro la religione dello Stato e dei culti ammessi” – dai “Delitti contro la pietà dei defunti”.

Se l’intero Capo ruota attorno al medesimo bene giuridico, emerge una partizione interna tra le prime incriminazioni (artt. 407 – 409 cod. pen.), il cui oggetto materiale è legato al culto dei defunti ed al sentimento di pietà che esso suscita, e le fattispecie successive (artt. 410-413 cod. pen.), poste a salvaguardia delle spoglie mortali e, quindi, del medesimo sentimento che le stesse evocano.

In particolare, la condotta di vilipendio punita dall’art. 408 cod. pen. – che deve avvenire «in cimiteri o altri luoghi di sepoltura» – ha ad oggetto «tombe, sepolcri o urne», oppure «cose destinate al culto dei defunti», quali croci, cappelle, immagini, lampade, fiori e tutti gli oggetti finalizzati alla memoria del defunto, ovvero cose destinate «a difesa o ad ornamento dei cimiteri», come muri, porte, monumenti, piante dei viali.

Di conseguenza, oggetto specifico della tutela apprestata dall’art. 408 cod. pen. è quel profilo della pietà dei defunti, che si declina attraverso il rispetto della sacralità del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie destinate al ricordo dei defunti.

L’elemento oggettivo del reato consiste in un’azione di “vilipendio“, termine che compare in diverse disposizioni codicistiche di parte speciale – specie tra i delitti contro la personalità interna dello Stato (artt. 290, 291, 292), oltre che, appunto, tra i delitti raggruppati nel Titolo IV (oltre all’art. 402, dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 508 del 2000, gli artt. 403, 404 e 410) , di cui però la legge non offre, in nessuna disposizione, la nozione.

Come suggerito dalla Corte costituzionale con riferimento alla fattispecie prevista dall’art. 290 cod. pen., il termine “vilipendio” va inteso “secondo la comune accezione del termine”, e “consiste nel tenere a vile“, il che significa, con riferimento al delitto di vilipendio della Repubblica, ricusare qualsiasi valore etico o sociale o politico all’entità contro cui la manifestazione è diretta sì da negarle ogni prestigio, rispetto, fiducia, in modo idoneo a indurre i destinatari della manifestazione (sent. n. 20 del 1974).

Se, dunque, il vilipendio deve essere inteso nel suo significato letterale, le fattispecie che lo prevedono come elemento costitutivo del fatto sono delineate come reati a forma libera, stante la molteplicità di condotte attraverso cui può manifestarsi il sentimento di disprezzo, scherno o dileggio, cambiando unica mente, a seconda delle diverse disposizioni incriminatrici, l’oggetto su cui deve incidere la condotta di vilipendio.

Con specifico riguardo al delitto qui al vaglio, la Cassazione ha già avuto modo di rilevare, rientra certamente nell’ambito di operatività della fattispecie di cui all’art. 408 cod. pen. il compimento di atti di disprezzo su cose deposte nei luoghi destinati a dimora dei defunti ed aventi la funzione di evocare il sentimento di pietà nei loro confronti che rechino danno alle stesse, le lordino o vi imprimano segni grafici vilipendiosi ovvero ne comportino la rimozione, anche parziale, con eventuale sostituzione con altre diverse per significato, origine e rilevanza sociale (Sez. 3, n. 43093 del 30/09/2021, Rv. 282298-01; Sez. 3 n. 4038, del 29/03/1985, Rv. 168901).

Inoltre, come si desume dalla locuzione impiegata nell’art. 408 cod. pen. – la quale incrimina il vilipendio “di”, e non “su”, tombe, sepolcri o urne, cose destinate al culto dei defunti, ovvero a difesa o ad ornamento dei cimiteri – assumono penale rilevanza anche semplici espressioni verbali o comportamenti che non ricadano sulla cosa in modo tale da produrne una modificazione esteriore visibile, purché, ovviamente, meritino l’appellativo di “vilipendio”, ossia esprimano disprezzo o profanazione verso le cose poste nei luoghi di sepoltura indicate dalla norma.

Va doverosamente precisato che spetta al giudice il compito di uniformare la previsione astratta di reato al principio di offensività: esigenza tanto più avvertita quanto più la condotta punibile sia individuata dal legislatore mediante l’impiego di termini aventi un’ampia latitudine semantica, quale certamente è il “vili pendio”.

Come costantemente predicato dalla Corte costituzionale, il principio di offensività – la cui matrice costituzionale è ricavabile dall’art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 211 del 2022), in una lettura sistematica cui fa da sfondo l’«insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenze n. 225 del 2008 e n. 263 del 2000) – opera su due piani distinti: da un lato (offensività “in astratto”), come precetto rivolto al legislatore, il quale non può sottoporre a pena fatti che, nella loro configurazione astratta, non esprimano un contenuto offensivo di beni o interessi ritenuti meritevoli di protezione; dall’altro (offensività “in concreto“), come criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, il quale, nella verifica della riconducibilità della singola fattispecie concreta al paradigma punitivo astratto, deve escludere dall’area del penalmente rilevante quei fatti che, sebbene formalmente conformi al tipo legale, in concreto si rilevino inidonei a ledere o a mettere in pericolo il bene tutelato (cfr., ex multis, sentenze n. 139 del 2023, n. 211 del 2022, n. 278 e n. 141 del 2019, n. 109 del 2016, n. 265 del 2005, n. 263 del 2000 e n. 360 del 1995).

Di conseguenza, come affermato la Corte costituzionale, il compito di uni formare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell’esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività “in concreto”).

Esso – rimanendo impegnato ad una lettura “teleologicamente orientata” degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense – dovrà segnatamente evitare che l’area di operatività dell’incriminazione si espanda a condotte prive di un’apprezzabile potenzialità lesiva» (sentenza n. 225 del 2008).

Nella ricognizione, nel singolo caso, del “vilipendio” penalmente rilevante ai sensi dell’art. 408 cod. pen., il giudice deve perciò valutare la condotta con riferimento al bene giuridico tutelato dalla norma, come sopra definito, e accertare che i gesti o le espressioni, anche se non diretti immediatamente contro le res con template dalla norma, producano, in concreto, la lesione del rispetto del luogo di sepoltura e delle cose mortuarie, e, quindi, del senso di pietà ispirato dal ricordo del defunto che necessariamente ad esso consegue.

Venendo al caso in esame, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, avendo ravvisato il “vilipendio” di tombe nel fatto — insindacabilmente accertato nel giudizio di merito – che due imputati aveva posto in essere un ballo a ritmo di rap sopra le tombe di centomila caduti di guerra, che trovano la loro collocazione funeraria nel sacrario di Redipuglia.

Si tratta, all’evidenza, di una condotta che, anche in relazione alla specificità del luogo, avente natura di monumento nazionale della Grande Guerra, appare chiaramente e inequivocabilmente espressiva di un sentimento di disprezzo di quel luogo di sepoltura, concretamente lesivo del senso di pietà ispirato dal ricordo delle migliaia di soldati caduti in guerra, le cui spoglie ivi riposano.

In conclusione, deve perciò ritenersi che integra il delitto di cui all’art. 408 cod. pen. la condotta di chi, all’interno di un sacrario militare monumentale, pone in essere un ballo a ritmo di rap sopra le tombe dei caduti cantando una canzone al fine di realizzare ed interpretare un video musicale poi diffuso attraverso Internet.