Inquadramento (cinematografico) della questione
In “Destinazione Piovarolo” (1955), il capostazione Antonio La Quaglia perde l’ultima occasione per lasciare la sua – poco gradita – assegnazione lavorativa ultraventennale perché la “frana” che aveva invaso i binari inducendolo a fermare il treno con a bordo il Ministro di turno era, in realtà, un innocuo microscopico masso, finito lì a causa della civettuola figlia Mariuccia. Era accaduto infatti che, di bocca in bocca, la narrazione paesana avesse trasformato il “sassetto” (parola della bella Irene Cefaro) in un poderoso sommovimento del monte, passando via via, per incontrollata evoluzione dialettica, da “cinquanta chili di masso” a “quintale di montagna”, a “macigno da una tonnellata”, fino a rovinoso crollo “di Pizzolungo”.
I (meno di) venticinque lettori si chiederanno a questo punto: che c’entra uno dei capolavori del Principe De Curtis (ma anche – tra gli altri – dell’indimenticato Paolo Stoppa, senza dimenticare ovviamente Tina Pica) con la Corte di cassazione e il diritto penale (del lavoro, poi)?
In una singolare vicenda giudiziaria, che andremo nel prosieguo a sunteggiare, il “rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”, figura professionale identificata univocamente dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (t.u. sicurezza) come esponente e portavoce delle maestranze per la tutela delle proprie prerogative, si trasforma progressivamente, nei vari gradi di giudizio, in “responsabile’ dei lavoratori per la sicurezza”, attribuendosi ad esso – fino al suggello della Corte suprema – responsabilità penali che non ha (né nel testo unico, né altrove).
La vicenda giudiziaria di merito
Prima di approdare alla sentenza della quarta sezione penale, 25 settembre 2023, n. 38914 (ud. 27 giugno 2023) – non proprio nuovissima per i ritmi di diuturno aggiornamento di Terzultima Fermata, ma dai sicuri effetti concreti fino al momento in cui scriviamo (e si leggerà) – conviene guidare la ricostruzione avviandola dal primo grado di giudizio.
Il Tribunale di Trani è chiamato a confrontarsi con una imputazione di omicidio colposo per violazione delle norme antinfortunistiche a carico, oltre che del datore di lavoro e del responsabile del servizio di prevenzione e protezione, di un componente dell’organo direttivo della società titolare dello stabilimento produttivo teatro dell’incidente mortale cui era stata – sebbene all’oscuro di tutti i dipendenti (lo accerterà il dibattimento) – assegnato altresì il ruolo di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza.
La Procura della Repubblica aveva in proposito parlato di “cooperazione colposa con il datore di lavoro ed il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, per colpa specifica correlata a violazioni delle norme in materia di sicurezza, concorreva a cagionare l’infortunio mortale (…) attraverso una serie di comportamenti omissivi e segnatamente: omettendo di promuovere l’elaborazione, l’individuazione e l’attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l’integrità fisica dei lavoratori; omettendo di sollecitare il datore del lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti (…) per l’uso dei mezzi di sollevamento; infine, omettendo di informare il responsabile dell’azienda dei rischi connessi all’utilizzo – da parte del (…) – del carrello elevatore».
Attingendo dunque dalle “attribuzioni” che l’art. 50 del d.lgs. 81/08 cit. assegna al rappresentante (rimarchiamo, rappresentante) dei lavoratori per la sicurezza, l’Ufficio requirente ha edificato una contestazione che si impinge – secondo il consueto modulo del cd. reato omissivo improprio – su tre adempimenti, valutati carenti (la promozione dell’elaborazione/individuazione/attuazione delle misure prevenzionistiche; la sollecitazione al datore di lavoro all’effettuazione di attività formativa specifica; l’informazione del responsabile dell’azienda dei rischi di utilizzo del mezzo elevatore), e tali da aver contribuito causalmente ex art. 113 c.p. al decesso del lavoratore.
L’affermazione di responsabilità penale cui approda il giudice di prime cure – nonostante, si badi, la richiesta di assoluzione rassegnata in sede di discussione finale da parte dello stesso pubblico ministero – è nei termini che seguono:
«La responsabilità del (…) va affermata sia alla luce delle medesime considerazioni [svolte per il datore, per la sua funzione di garanzia ndr.] sia della veste di dirigente all’interno dell’azienda sia di R.S.L., atteso che (…) egli nella precipua veste rivestita, e pur essendo bene a conoscenza di tutta la situazione descritta non abbia fatto nulla, pur a conoscenza anche della nota invitata dal [RSPP, ndr.] e tenuto conto della piena consapevolezza della situazione di controllo evidentemente discendente anche dal ruolo di responsabile per la sicurezza dei lavoratori, affinché venissero sollecitate e/o adottate le necessarie contromisure affinché l’evento, del tutto prevedibile ed evitabile, si verificasse».
Secondo il Tribunale pugliese, pertanto, l’omicidio colposo è da ascriversi anche al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza non solo per la specificità del “doppio ruolo” rivestito (anche, cioè, come figura dirigenziale) ma pure ex se.
Non è chiara, a ben vedere, la “quota” di rilievo che ha – per tale posizione – il ruolo di rappresentante (non ancora divenuto il “responsabile”, ma manca poco con la pazienza di seguirci…) dei lavoratori. Ma il quadro di incertezza si compone nel grado successivo.
La Corte di appello di Bari nel condividere in toto le conclusioni del “merito alla sussistenza in capo a (…) della posizione di garanziae dunque della ipotizzabilità a suo carico di una cooperazione colposa nella condotta omissiva posta in essere dal legale rappresentante dell’azienda, rivestendo (…) non solo il ruolo di responsabile dei lavoratori ma anche di membro del Consiglio di amministrazione della (…), puntualizza:
«Come noto, il d.lgs. 81/08, all’art. 50 ha disciplinato tra le varie figure aziendali quella del Responsabile dei lavoratori per la sicurezza”, risultando nella specie che il predetto “non ha in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano attribuiti dalla legge, consentendo che (… ) fosse adibito a mansioni diverse (…) senza aver ricevuto alcuna adeguata formazione, non sollecitando in alcun modo l’adozione da parte del responsabile dell’azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori”
Per la Corte territoriale (ancora una volta disattendendo le conclusioni della parte pubblica: anche qui il Procuratore generale aveva difatti invocato in proscioglimento), la norma avrebbe (ha, nella perentoria declamazione dei giudici: “come noto”) disciplinato il “Responsabile” dei lavoratori per la sicurezza. Sussisterebbe poi (sussiste) una posizione di garanzia a carico di esso, al pari delle altre figure professionali cui normativamente la stessa si assegna (datore, dirigente, preposto, RSPP).
La posizione (definitivamente) “trasfigurata” della Corte di cassazione
Dal giudice della nomofilachia (non osiamo immaginare i lazzi che il nostro più grande attore comico avrebbe sfornato dal lemma) ci attenderemmo a questo punto un intervento riequilibratore della litera legis – e della corretta esegesi sistematica e funzionale delle norme extra penali attinte (basti considerare che la figura è dettagliata nella sezione VII del capo III “Gestione della prevenzione dei luoghi di lavoro” del titolo I, rubricata sotto “Consultazione e partecipazione dei rappresentanti dei lavoratori”, slegata dalla rassegna delle altre figure espressamente chiamate a garantire la tutela prevenzionistica in quanto inserite nella sezione I dello stesso capo) – con ferma presa di posizione su un approdo tanto disinvolto di giurisprudenza creativa.
La Corte di fatto “glissa” sul tema della ricorso o no della posizione di garanzia (“nel caso di specie, viene in rilievo non se l’imputato, in tale sua veste, ricoprisse o meno una posizione di garanzia intesa come titolarità di un dovere di protezione e di controllo finalizzati ad impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire (articolo 40 cpv. c.p.) – ma se egli abbia, con la sua condotta, contribuito causalmente alla verificazione dell’evento (…)” e – a prescindere (per restare in tema) – declama:
“Come è noto, l’articolo 50 Decreto Legislativo n. 81 del 2008 (…) attribuisce al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza un ruolo di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro (…) Sotto questo profilo, la sentenza impugnata (…) richiamati i compiti attribuiti dall’articolo 50 al Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza, ha osservato come l’imputato non abbia in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge (…)».
Ecco in definitiva come ad un professionista – nei cui confronti il d.lgs. n. 81/08 si preoccupa tra l’altro di garantire una formazione “specifica” (art. 37, co. 10) per valorizzarne il ruolo consultivo, cui si conferiscono (l’unico) non compiti ma “attribuzioni”, e altrettanto unicamente neppure specifiche sanzioni penali (assegnate ex art. 59 t.u.s. persino ai lavoratori!) – si conferisce un altro nome, un altro ruolo e soprattutto un severo rischio di coinvolgimento (da allora) in ogni evento lesivo o letale possa occorrere in un ambiente lavorativo.
D’altronde – ed è proprio l’ultima delle contaminazioni dalla settima arte – siamo partiti da un maestro nella storpiatura dei nomi.
