La Cassazione sezione 3 con la sentenza numero 28144/2024 ha ricordato che in tema di esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio, il rinvio alla pena della reclusione “non superiore nel massimo a quattro anni“, contenuto nell’art. 550, cod. proc. pen., dev’essere inteso come “fisso“, in quanto, per l’inderogabilità del principio “tempus regit actum”, è riferito alla norma vigente al momento dell’esercizio dell’azione penale e non a quella di diritto sostanziale in concreto applicabile all’imputato sulla base dei criteri successori di cui all’art. 2 cod. pen.
Fattispecie in cui la Suprema Corte ha ritenuto non abnorme il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero che, in relazione a un fatto commesso nel vigore dell’art. 176 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, aveva emesso decreto di citazione diretta a giudizio nonostante l’incriminazione fosse già confluita nella disposizione di cui all’art. 518-bis, cod. pen., i cui limiti di pena imponevano la richiesta di rinvio a giudizio con fissazione dell’udienza preliminare.
È insegnamento della Corte di legittimità che «In tema di esercizio dell’azione penale con citazione diretta a giudizio, il rinvio previsto dall’art. 550 cod. proc. pen. alla pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni, è “fisso” in quanto, stante l’inderogabilità del principio tempus regit actum in ambito processuale, va riferito alla norma vigente al momento dell’esercizio dell’azione penale e non già a quella di diritto sostanziale concretamente applicabile all’imputato, sulla base dei criteri che regolano la successione delle leggi penali del tempo» (Sez. 2, n. 9876 del 12/02/2021, Rv. 280724: fattispecie relativa al reato di cui all’art. 642 cod. pen., la cui pena – in data successiva alla consumazione ma antecedente all’esercizio dell’azione penale – era stata aumentata nel massimo edittale a cinque anni, in cui la Cassazione ha annullato la sentenza emessa a seguito di citazione diretta a giudizio).
In altri termini, nella pronuncia richiamata, la Suprema Corte ha precisato che il rinvio contenuto nell’art. 550 cod. proc. pen. al limite di pena dei quattro anni debba essere inteso come “fisso“, ovvero riferito alla norma vigente nel momento in cui si esercita l’azione penale, e non come “mobile” ovvero collegato alla norma di diritto penale sostanziale in concreto applicabile all’imputato sulla base dei criteri indicati dall’art. 2 cod. pen.
È stato anche osservato che la violazione delle regole previste dall’art. 550 cod. proc. pen. lede il diritto di difesa solo se l’illegittimità genera una contrazione delle garanzie processuali attraverso l’eliminazione della fase dell’udienza preliminare, tanto che l’art. 550, comma 3, cod. proc. pen. prevede una nullità relativa limitatamente al caso in cui si sia proceduto con citazione diretta invece che con richiesta di rinvio a giudizio e non nel caso inverso (il terzo comma dell’art. 550 cod. proc. pen. non ha subìto modifiche a seguito della entrata in vigore della riforma Cartabia).
Il principio ha trovato continuità nella giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, n. 28694 del 19/05/2022, Rv. 283578 – 01) ed è stato anche richiamato, in parte motiva, dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 37502 del 28/04/2022, Scarlini, Rv. 283552).
Ebbene, così delineate le coordinate giuridiche della questione relativa alle modalità di esercizio dell’azione penale, il fatto oggetto di contestazione, nella fattispecie in esame, è stato commesso nella vigenza della disposizione più favorevole, ma l’esercizio dell’azione penale, mediante citazione diretta a giudizio, risale ad epoca successiva alla trasposizione nel codice penale, con applicazione del principio della riserva di codice, dei delitti del patrimonio culturale già inseriti nel codice di settore, con inasprimento del trattamento sanzionatorio.
Consegue che, al momento dell’esercizio dell’azione penale, la disciplina di cui all’art. 550 c.p.p. non consentiva la citazione diretta a giudizio per la fattispecie di reato per la quale era stata elevata l’imputazione, sicché le modalità di esercizio dell’azione penale prescelte dal pubblico ministero presso il Tribunale di Teramo erano giuridicamente erronee.
Le Sezioni Unite da ultimo pronunciatesi sull’argomento (Sez. U, n. 37502 del 28/04/2022, Scarlini, cit.; Sez. U, n. 42603 del 13/07/2023, P.M. c/ El Karti, Rv. 285213) hanno richiamato l’approdo della giurisprudenza precedente (Sez. U, n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590) che, nel rapporto tra giudice e pubblico ministero, ha ritenuto che l’abnormità strutturale ricorra nei casi di esercizio da parte del giudice di un potere non attribuitogli dall’ordinamento (carenza di potere in astratto) ovvero di deviazione del provvedimento giudiziale rispetto allo scopo di modello legale al di là di ogni ragionevole limite (carenza di potere in concreto), mentre l’abnormità funzionale, ravvisabile nei casi di stasi del procedimento e di impossibilità di proseguirlo, ricorra nell’ipotesi in cui il provvedimento giudiziario imponga al pubblico ministero un adempimento che concretizzi un atto nullo, rilevabile nel corso futuro del procedimento o del processo.
Solo in tali limiti il pubblico ministero può ricorrere, altrimenti è tenuto ad ottemperare in un sistema che non consente la possibilità di conflitto, in caso di contrasto tra pubblico ministero e giudice, non potendo affermarsi che l’effetto della regressione del processo ad una fase precedente caratterizzi di per sé l’abnormità al di fuori dei casi in cui la restituzione degli atti al pubblico ministero sia disposta indebitamente.
Nel caso di specie, il provvedimento di restituzione degli atti al pubblico ministero, fondato sulla considerazione che la fattispecie di reato contestata (art. 176 d.lgs. n. 42/2004) fosse confluita nella disposizione codicistica di cui all’art. 518-bis cod. pen., i cui limiti di pena imponevano la necessità della fissazione dell’udienza preliminare, non è giuridicamente erroneo e non è pertanto affetto da abnormità; ed anzi, è conforme agli insegnamenti della Corte di legittimità.
Resta chiaro che, ai sensi dell’art. 2, comma 4, cod. pen., l’imputato sarà giudicato sulla base della disposizione normativa sostanziale per lui più favorevole.
Per completezza, va aggiunto come un eventuale invito al pubblico ministero a meglio precisare la definizione giuridica ai sensi dell’art. 554-bis, comma 6, cod. proc. pen. non avrebbe potuto avere come esito la risoluzione della problematica, dal momento che l’oggetto della questione verte non sulla qualificazione giuridica dei fatti, bensì sulla corretta individuazione delle modalità di esercizio dell’azione penale, non più emendabili nella fase processuale in cui è stata pronunciata l’ordinanza impugnata, se non mediante la restituzione degli atti al pubblico ministero.
