Taranto e i suoi abitanti continuano ad attendere giustizia (Vincenzo Giglio)

Premessa

Si apprende dalla stampa (a questo link per uno dei tanti resoconti giornalistici) che la sezione distaccata di Taranto della Corte di assise d’appello di Lecce ha annullato la sentenza emessa dalla Corte di assise di Taranto nel processo cosiddetto “Ambiente svenduto” che aveva ad oggetto il presunto disastro ambientale, contestato sub specie disastro innominato poiché all’epoca dei fatti la fattispecie ex art. 452-quater non era stata ancora introdotta, che sarebbe stato causato dai responsabili dell’ex ILVA negli anni di gestione della famiglia Riva.

La decisione dei giudici di secondo grado, cui consegue la trasmissione degli atti all’autorità giudiziaria di Potenza, competente ex art. 11, cod. proc. pen., sembra essere dipesa dall’accoglimento della tesi difensiva (a questo link per il dettaglio specifico) secondo la quale alcuni dei giudici tarantini sono inclusi tra le parti offese del giudizio in quanto residenti nelle aree territoriali che avrebbero subito gli effetti prodotti dal reato contestato.

La medesima tesi era stata respinta dai giudici di primo grado con un’articolata motivazione di cui dà conto, con la consueta tempestività, la rivista Giurisprudenza Penale (a questo link per la consultazione).

Come c’era da aspettarsi, l’annullamento ha suscitato molteplici reazioni, ivi comprese quelle di coloro che lo considerano un precedente pericolosissimo, il quale potrebbe aggiungersi ai tanti ostacoli che già rendono arduo l’iter dei giudizi per contestazioni di disastro.

Disastri ambientali e loro effetti su diritti essenziali di esseri umani

In attesa di conoscere le motivazioni del provvedimento di annullamento ed anche coerentemente alla propensione di Terzultima Fermata al pensiero laterale, riteniamo utile riportare una decisione di legittimità, precisamente Cassazione civile, Sez. 2^, ordinanza n. 5022/2021, camera di consiglio del 12 novembre 2020, che, pronunciandosi su un ricorso avverso il rigetto di una domanda volta al riconoscimento della protezione internazionale o umanitaria, ha chiarito molto bene le conseguenze che i disastri ambientali e climatici sono in grado di produrre su diritti essenziali degli esseri umani.

Eccone i passaggi salienti.

Il tema del disastro ambientale e climatico è stato affrontato, a livello internazionale, dal Comitato delle Nazioni Unite nell’ambito della decisione del ricorso avanzato da I.T. (caso n. 2727/2016, decisione del 24 ottobre 2019), cittadino delle isole Kiribati, per il riconoscimento del diritto di asilo politico in Nuova Zelanda, a causa del pericolo per la sopravvivenza, sua e della sua famiglia, causata dai cambiamenti climatici che, causando un innalzamento del livello del mare nell’area del Pacifico, avevano posto a rischio di sommersione l’isola di Tarawa, nella Repubblica di Kiribati, nella quale il ricorrente abitava con i suoi congiunti. Il ricorrente lamentava, in particolare, l’estrema instabilità ed incertezza delle sue condizioni di vita, e proponeva un paragone tra la sua condizione e quella del migrante in fuga dalla guerra, posto che l’aumento del livello del mare aveva eroso l’area abitabile dell’isola, causato un aumento della densità di popolazione per chilometro quadrato, con conseguente scarsità delle risorse naturali (in primis, dell’acqua dolce, a causa dell’infiltrazione di acqua salata nelle falde, e dei terreni coltivabili) e creato quindi tensioni sociali prima inesistenti.

Il Comitato ONU, adito dal T. all’esito dell’esaurimento dei ricorsi interni al diritto neozelandese (stato nel quale egli aveva chiesto asilo), pur rigettando la domanda a causa della mancata dimostrazione, da parte del richiedente, dell’effettivo ed imminente pericolo di sommersione dell’isola dalla quale egli proveniva, ha affermato il principio per cui gli Stati hanno l’obbligo di assicurare e garantire il diritto alla vita delle persone, e che tale diritto si estende anche alle minacce ragionevolmente prevedibili e alle situazioni potenzialmente letali che possono comportare la perdita della vita o comunque un sostanziale peggioramento delle condizioni dell’esistenza, inclusi il degrado ambientale, i cambiamenti climatici e lo sviluppo insostenibile, che costituiscono alcune delle minacce più gravi ed urgenti alla vita delle generazioni presenti e future (cfr. punto 9.4 della decisione) e che possono influire negativamente sul benessere di un individuo e causare, pertanto, una violazione del suo diritto alla vita (cfr. punto 9.5).

In particolare, il Comitato ONU ha ritenuto che il principio generale del non refoulement, che vieta il rimpatrio di un richiedente asilo in un contesto territoriale in cui ci siano sostanziali rischi di danno irreparabile alla sua incolumità personale o a quella dei suoi familiari, si applica a tutte le condizioni di pericolo, poiché il diritto individuale alla vita comprende anche quello ad una esistenza dignitosa e alla libertà da ogni atto od omissione che possa causare una innaturale o prematura scomparsa della persona umana. Gli Stati, di conseguenza, sono vincolati ad assicurare agli individui condizioni di vita che rendano possibile la piena esplicazione del diritto alla vita, nella sua ampia declinazione, anche a prescindere dall’esistenza di un pericolo attuale per la sopravvivenza. Il degrado ambientale, nella prospettazione del Comitato ONU, può compromettere l’effettivo godimento dei diritti umani individuali, al pari del cambiamento climatico e degli effetti causati, in generale, dallo sviluppo insostenibile; ciò si verifica quando il governo locale non può, o non vuole, assicurare le condizioni necessarie a garantire a tutti l’accesso alle risorse naturali essenziali, quali la terra coltivabile e l’acqua potabile, con conseguente compromissione del diritto individuale alla vita.

Da quanto precede discende che qualora, come nel caso di specie, il giudice di merito ravvisi, in una determinata area, una situazione idonea ad integrare un disastro ambientale, o comunque un contesto di grave compromissione delle risorse naturali cui si accompagni l’esclusione di intere fasce di popolazione dal loro godimento, la valutazione della condizione di pericolosità diffusa esistente nel Paese di provenienza del richiedente, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, va condotta con specifico riferimento al peculiare rischio per il diritto alla vita e all’esistenza dignitosa derivante dal degrado ambientale, dal cambiamento climatico o dallo sviluppo insostenibile dell’area. Il pericolo per la vita individuale che rileva ai fini del riconoscimento della protezione, infatti, non deve necessariamente derivare da un conflitto armato, ma può dipendere da condizioni socio-ambientali comunque riferibili all’azione dell’uomo, a condizione che il contesto che si viene a creare in una determinata zona sia, in concreto, tale da mettere seriamente a rischio la stessa sopravvivenza del singolo individuo e dei suoi congiunti. In questa prospettiva la guerra, o in generale il conflitto armato, rappresentano la più eclatante manifestazione dell’azione autodistruttiva dell’uomo, ma non esauriscono l’ambito dei comportamenti idonei a compromettere le condizioni di vita dignitosa dell’individuo. Tale compromissione, infatti, si configura in ogni ipotesi in cui il contesto socio-ambientale sia talmente degradato da esporre l’individuo al rischio di veder azzerati i suoi diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione, o comunque di vederli ridotti al di sotto della soglia del loro nucleo essenziale e ineludibile. Sotto questo profilo, va precisato che il concetto di “nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale” affermato da questa Corte con riferimento allo scrutinio che il giudice di merito deve condurre ai fini dell’accertamento del rischio derivante dal rimpatrio, e della conseguente vulnerabilità individuale che legittima il riconoscimento della protezione umanitaria (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298; Cass. Sez. U, Sentenza n. 29459 del 13/11/2019, Rv. 656062-02; Cass. Sez. 1, Ordinanza n.17130 del 14/08/2020, Rv, 658471) costituisce il livello essenziale, al di sotto del quale non sono ravvisabili le condizioni di vita dignitose e, quindi, non è assicurato il diritto fondamentale alla vita dell’individuo.

Ne deriva che il giudice di merito è tenuto a verificare l’effettiva assicurazione di detto limite minimo non soltanto in relazione a situazioni inquadrabili nell’ambito del conflitto armato, ma anche con riferimento a condizioni di degrado sociale, ambientale o climatico, ovvero a contesti di insostenibile sfruttamento delle risorse naturali, che comportino un grave rischio per la sopravvivenza del singolo individuo. La valutazione del pericolo, in altri termini, non va condotta unicamente con riferimento all’ipotesi limite del conflitto armato, ma – più in generale – con riguardo alla sussistenza, in concreto, di una condizione idonea a ridurre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al di sotto della soglia minima ineludibile di cui anzidetto. Nel caso di specie, questa specifica verifica è mancata.

Note di chiusura

La città di Taranto e i suoi abitanti hanno subito per decenni la negazione di quella condizione che Stefano Rodotà definì “il diritto di avere diritti” un cui importante corollario è quello di non dovere essere costretti a scegliere tra diritti ugualmente essenziali ma spesso in conflitto tra loro quali il diritto alla salute e quello al lavoro come presupposto di una retribuzione che consenta un’esistenza libera e dignitosa.

Taranto, al di là della vicenda penale di cui si discute e dell’esito che avrà, è stata il luogo di sperimentazione di una fortissima frizione tra i due beni primari protetti da quei diritti ed è ancora in cammino alla ricerca di un modello che le consenta di superare la sua storica dipendenza dalla monocultura industriale.

Taranto e i suoi abitanti meritano una risposta di giustizia, questo ci si sente di dire.