Per Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 30321/2024, udienza del 18 luglio 2024, deve ritenersi “colluso” e, dunque, concorrente esterno nell’associazione mafiosa, l’imprenditore che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della affectio societatis, instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l’imprenditore, nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi o utilità (così, tra le tante, Sez. 6, n. 30346 del 18/04/2013, Rv. 256740).
L’imprenditore “colluso” è, cioè, colui il quale entra in rapporto sinallagmatico con l’associazione, tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti, per l’imprenditore, nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e, per il sodalizio criminoso, nell’ottenere risorse, servizi o utilità.
Deve invece ritenersi imprenditore “vittima” colui il quale, soggiogato dall’intimidazione, non tenta di venire a patti con il sodalizio, ma cede all’imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a perseguire un’intesa volta a limitare tale danno (Sez. 5, n. 39042 del 01/10/2008, Rv. 242318).
Il discrimen fra l’una e l’altra figura si colloca, dunque, nel diverso atteggiarsi dal punto di vista materiale e psicologico – del rapporto del singolo con la societas sceleris.
L’imprenditore “vittima” si trova in uno stato di timore o soggezione, derivante dalla forza intimidatrice dispiegata dall’associazione mafiosa, che ne elide – o ne vizia – la volontà e che lo costringe o lo induce a venire a patti con la consorteria, al fine di evitare nocumenti o anche soltanto di scongiurare un maggior danno.
L’imprenditore può invece reputarsi “colluso” allorquando tratti su di un piano di sostanziale parità con il proprio interlocutore, cioè, aderisca alla “clausola contrattuale” impostagli dalla societas – sia pure economicamente svantaggiosa -, non perché coartato dall’intimidazione mafiosa, ma per propria libera decisione e nella prospettiva di trarre dei vantaggi per la propria azienda dallo scendere a patti con l’organizzazione criminale.
Nel primo caso, il privato versa in uno stato di soggezione nei confronti della consorteria, che vizia a monte l’assetto dei reciproci interessi nel c.d. “accordo”; nel secondo, l’imprenditore non si trova in uno stato di timore psicologico nei confronti dell’altro contraente, ma accetta di versare le somme quale mera clausola di un accordo sinallagmatico improntato alla logica del do ut des, in forza del quale egli si impegna a dare, in cambio di ritorni favorevoli per la propria attività economica.
D’altra parte, va ribadito che, nella ipotesi in cui si sia verificata cooperazione imprenditoriale tra gli appartenenti ad un sodalizio di stampo mafioso, da un lato, ed un soggetto non inserito nella predetta struttura delinquenziale, dall’altro, deve escludersi la ricorrenza della esimente dello stato di necessità in favore di quest’ultimo, che, accogliendo la proposta proveniente dalla compagine criminosa, si giovi, al contempo, dell’esistenza della associazione e ne tragga benefici in termini di protezione e di finanziamento (Sez. 5, n. 6929 del 22/12/2000 – dep. 2001, Rv. 219245). Non può, difatti, ravvisarsi la causa di giustificazione dello stato di necessità quando il soggetto si trovi nella situazione di potersi sottrarre alla costrizione a violare la legge facendo ricorso all’autorità, cui va chiesta tutela (Sez. 5, n. 4903 del 23/04/1997, Rv. 208134).
Commento
Nella decisione qui annotata, come in tante altre che l’hanno preceduta, la Suprema Corte mette a fuoco la nozione di imprenditore colluso e la colloca più propriamente nell’area del concorso esterno, distinguendola da quella dell’imprenditore vittima: è colluso chi si inserisce in un sinallagma da cui ricava benefici, è vittima chi scende a patti solo per limitare i danni.
In altri termini, è colluso chi riesce a trasformare la pressione mafiosa di cui è vittima in un’opportunità vantaggiosa; è vittima chi sopporta i danni senza trarne alcun vantaggio.
Si legga, ad esempio, in Cassazione penale, Sez. 6^, n. 27807/2017, nella quale affiora aggiuntivamente il tema della “impresa mafiosa“: “Il tema dei rapporti tra imprenditori e mafia è stato negli ultimi anni più volte affrontato dagli studiosi della materia, sotto il profilo sia sociologico sia giuridico, ed è sempre più frequentemente oggetto di esame nei provvedimenti giudiziari, specialmente, per ovvie ragioni, in quelli relativi alle misure di prevenzione patrimoniali, che possono incidere direttamente sui beni dell’imprenditore, anche quando – come solitamente avviene – l’impresa sia esercitata in forma societaria. I rapporti che concretamente si possono instaurare tra imprenditori e mafia si risolvono di solito o nel rapporto di protezione-estorsione, o in quello relativo alla manipolazione degli appalti pubblici, o altre agevolazioni; e l’atteggiamento dell’imprenditore nei confronti dell’associazione mafiosa può essere non solo quello dell’imprenditore vittima o comunque subordinato, ma anche di tipo strumentale, clientelare o collusivo. A queste ultime due situazioni può corrispondere la formazione della cosiddetta impresa mafiosa, che trova fondamento normativo nell’art. 416 bis c.p. e che è espressione della tendenza delle associazioni mafiose a svolgere attività produttive, commerciali e finanziarie mediante l’utilizzo di capitali di provenienza illecita, ovvero avvalendosi nell’esercizio dell’attività imprenditoriale delle tipiche modalità operative dell’associazione, cioè la forza di intimidazione del vincolo associativo e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, che fungono da componenti anomale dell’avviamento”.
Una differenza, quella appena tracciata, che in altre occasioni viene declinata tramite le espressioni “contiguità compiacente” e “contiguità soggiacente” (si veda, come pronuncia capostipite, Cassazione penale, Sez.1^, 5 gennaio 1999, Cabib), molto apprezzata e replicata dalla giurisdizione amministrativa, soprattutto nelle pronunce che hanno a che fare con le informazioni interdittive antimafia.
Comunque sia, e a prescindere dal valore descrittivo delle formule coniate di volta in volta, il fenomeno della collusione imprenditoriale è ben lontano da un inquadramento univoco: se infatti, come si è visto, c’è chi ritiene che debba essere riportato nell’area del concorso esterno, non mancano ed anzi abbondano visioni interpretative che lo classificano alla stregua di una vera e propria partecipazione associativa.
Rientra a pieno titolo in questo secondo indirizzo interpretativo il caso dell’imprenditore che assume il ruolo di “garante ambientale” (o con ancora maggiore pretesa descrittiva “garante della sicurezza ambientale”) della cosca di riferimento, prestandosi a fare da tramite tra questa e gli operatori economici di un determinato territorio così che costoro possano fare “il loro dovere” e riconoscere al gruppo egemone tutti i privilegi che gli spettano (così, Cassazione penale, Sez. 5^, 50130/2015).
È considerato ugualmente partecipe l’imprenditore colluso che tiene la contabilità delle attività di usura svolte dalla cosca (Cassazione penale, Sez. 5^, 3019/2018), che approfitta della capacità intimidatoria dell’associazione mafiosa per indurre funzionari pubblici ad affidargli indebitamente appalti (Cassazione penale, Sez. 2^, 49093/2015), che mette a disposizione della cosca autovetture e armi (Cassazione penale, Sez. 2^,24771/2015).
Sono state ricondotte invece nell’area del concorso esterno la condotta di un imprenditore che ha ottenuto il monopolio in un determinato quartiere della gestione di videopoker retrocedendo a Cosa nostra una parte dei proventi (Cassazione penale, Sez. 5^, 30133/2018) e quella analoga dell’imprenditore che, trasportando rifiuti presso un termovalorizzatore, ha sovrafatturato il compenso dovutogli dalla società che lo gestiva, così consentendole di occultare il “pizzo” da versare all’associazione mafiosa (Cassazione penale, Sez. 6^, 25261/2018).
La casistica offre poi ulteriori sfumature che però non aggiungono nulla al conflitto e lasciano intatte le complicazioni attuative che ne derivano.
Tanto è vero che i suoi stessi artefici hanno avvertito la necessità di disinnescarlo e lo hanno fatto in questi termini: “se le nozioni di «imprenditore colluso» e di «imprenditore vittima» offrono all’accertamento giudiziario un punto di riferimento per tracciare il confine dell’area dei fatti penalmente rilevanti, resta imprescindibile la ricostruzione della fattispecie concreta alla luce del fatto tipico, secondo le direttive interpretative offerte dalla giurisprudenza di legittimità e in forza del rigoroso vaglio dei dati conoscitivi acquisiti accompagnato dalla rigida osservanza del dovere di motivazione (Cassazione penale, Sez. 5^, 43639/2017).
Le alternative colluso/vittima e compiacenza/soggezione degradano così a mero spunto e il nuovo spirito guida viene individuato in un percorso predefinito (vaglio rigoroso dei dati conoscitivi e motivazione puntuale nel rispetto delle direttive impartite dalla giurisprudenza di legittimità) che non potrebbe essere più tautologico e autoreferenziale.
Del resto, a conferma della debolezza del criterio distintivo possono essere citate le tante pronunce in cui si riconosce che “La mera “contiguità compiacente”, così come la “vicinanza” o “disponibilità” nei riguardi di singoli esponenti, anche di spicco, del sodalizio, non bastano per integrare la condotta di partecipazione a una associazione a delinquere di stampo mafioso, se non è dimostrato che la vicinanza a soggetti mafiosi si sia tradotta in un effettivo contributo causale rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento della consorteria” (Cassazione penale, Sez. 6^, 40746/2016, richiamata adesivamente dalla stessa sezione, 22804/2020).
Non solo: all’interno del vasto ambito degli imprenditori “collusi”, c’è chi ha proposto la distinzione tra imprenditori clienti e imprenditori strumentali: i primi instaurano con le associazioni mafiose relazioni stabili e convenienti per ambo le parti; i secondi si accontentano di accordi occasionali e di durata limitata (il riferimento è a R. Sciarrone, Il rapporto tra mafia e imprenditorialità in un’area della Calabria, in Quaderni di sociologia, Volume XXXVII, n. 5, 1993.
Ciò che rimane è una babele linguistica e semantica la quale consente contestazioni largamente influenzate da visioni e sensibilità particolari che sarebbe vano tentare di ricondurre ad unità.
Sono molti gli studiosi che hanno rilevato l’ambiguità strutturale dei criteri ai quali è affidata la selezione delle condotte imputabili a titolo di concorso esterno, le rilevanti incertezze applicative che ne derivano e il danno arrecato al principio di tipicità.
Per la loro particolare pertinenza al tema della collusione imprenditoriale, si segnalano, senza pretese di completezza: G. Amarelli, Contiguità mafiosa e controllo penale: dall’euforia giurisprudenziale al ritorno alla legalità, in Materiali per una cultura della legalità, Giappichelli, 2018; S. De Flammineis, Impresa mafiosa ed impresa vittima: segmenti di intersecazione e la figura del concorrente esterno estorto in Diritto Penale Contemporaneo, 2/2018; L. Giordano, L’imprenditore e l’associazione di tipo mafioso: il “colluso” e la “vittima, in Il Penalista, 16 febbraio 2018; E. Montani, Partecipazione e concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso: un confine liquido, Rivista di studi e ricerche sulla criminalità organizzata, Vol. 2, n. 4, 2016.
