Provvedimenti giudiziari in materia di colloqui in carcere: ricorribili per cassazione, non appellabili ex art. 310 c.p.p. (Vincenzo Giglio)

Cassazione penale, Sez. 4^, sentenza n. 17696/2024, 28 marzo/6 maggio 2024, ha chiarito la natura dei provvedimenti in materia di colloqui carcerari e i mezzi di impugnazione utilizzabili.

Vicenda giudiziaria

Con ordinanza del 13 dicembre 2023, il tribunale di Palermo, investito ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., ha accolto l’appello proposto nell’interesse di CM e ha annullato il provvedimento del 13 novembre 2023 col quale il GUP di Palermo aveva negato al predetto, sottoposto a custodia cautelare in carcere, di avere colloqui col figlio di tre anni.

Avendo annullato il provvedimento impugnato, il Tribunale ha autorizzato il bambino ad avere colloqui col padre, nei limiti consentiti dall’ordinamento penitenziario, accompagnato da MI (persona che – si legge nel provvedimento – era già stata autorizzata ad avere colloqui col detenuto).

Ricorso per cassazione

Contro l’ordinanza del tribunale ha proposto tempestivo ricorso il Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Palermo.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce inosservanza ed erronea applicazione di legge. Sostiene che il provvedimento col quale il GUP aveva negato il permesso di colloquio non poteva essere oggetto di appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.

Il ricorrente si duole che l’ordinanza impugnata abbia fatto applicazione analogica del principio che consente di proporre appello ex art. 310 cod. proc. pen. contro i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen.

Sottolinea che, in quel caso, è il giudice a imporre «limiti o divieti» e la procedura è interamente giurisdizionalizzata ma non lo è invece per quanto riguarda i permessi di colloquio.

Secondo il ricorrente, i provvedimenti con i quali vengono autorizzati o negati i colloqui alle persone sottoposte a misura cautelare, ancorché adottati dall’autorità giudiziaria fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, non hanno natura giurisdizionale, ma amministrativa. Pertanto, il tribunale non avrebbe potuto annullare la decisione adottata dal GUP.

Col secondo motivo, il ricorrente lamenta illogicità e contraddittorietà della motivazione, fondata sul «particolare favore» accordato ai colloqui con i familiari dall’art. 18 legge 26 luglio 1975 n. 354.

Osserva che, nel caso di specie, il permesso di colloquio è stato negato perché dinanzi al tribunale per i minorenni di Palermo è stato aperto un procedimento volto ad ottenere la dichiarazione di adottabilità del minore e tale procedimento è stato instaurato perché, nelle indagini che hanno condotto all’applicazione della misura cautelare a carico di CM, è emerso che egli svolgeva attività di spaccio nella propria abitazione in concorso con la compagna, CA, facendosi assistere in tali operazioni dai figli minorenni.

Secondo il ricorrente, annullando il provvedimento che ha negato il permesso di colloquio, l’ordinanza impugnata avrebbe compiuto valutazioni relative all’interesse del minore sulle quali ha esclusiva competenza il tribunale per i minorenni.

Decisione della Corte di cassazione

…Riassunzione della vicenda sottostante al ricorso

Per una migliore comprensione della vicenda è necessario riferire che il 9 novembre 2023, CM (sottoposto a custodia cautelare in carcere per i reati di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. n. 309/90), chiese al GUP di Palermo (di fronte al quale il procedimento a suo carico era pendente), di essere autorizzato ad incontrarsi col figlio CG.

Trattandosi di un bambino di tre anni, l’istante chiese che MI fosse autorizzata ad accompagnare in carcere il bambino.

Precisò a tal fine: che una precedente istanza con la quale si chiedeva che il minore fosse accompagnato in carcere dalla madre, CA, era stata respinta perché costei è imputata nel medesimo procedimento; che, pertanto, era stata individuata come accompagnatrice del minore MI (figlia della CA).

Con provvedimento del 13 novembre 2023, il GUP ha respinto l’istanza affermando di condividere le ragioni espresse nel motivato parere contrario del PM e richiamandole per relationem.

In questo parere il PM osserva: che MI è «già stata autorizzata a svolgere colloqui con il detenuto CM»; che, in data 25 luglio 2023, il GUP ha negato a CM l’autorizzazione a incontrare il figlio, essendo pendente un procedimento «dinanzi al Tribunale per i minorenni per la dichiarazione di adottabilità»; che, con riferimento ai colloqui col minore, «nessun altro elemento di novità» è stato allegato.

Dall’ordinanza impugnata risulta che, il 24 luglio 2023, il Tribunale per i minorenni (appositamente interpellato dal PM) aveva ritenuto ostative allo svolgimento di colloqui tra il padre e il bambino: da un lato, la pendenza di un procedimento per la dichiarazione di adottabilità; dall’altro, le particolari condizioni del minore, che ha appena tre anni, è «affetto da sindrome di Down» e «potrebbe avere pregiudizio per la visita in un carcere».

Contro il provvedimento di diniego del permesso di colloquio emesso dal GUP il 13 novembre 2023, il difensore di CM ha proposto appello ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.

Il tribunale adito ha ritenuto l’appello ammissibile facendo «applicazione analogica del consolidato principio secondo cui è ammissibile l’appello avverso il provvedimento di rigetto dell’istanza di revoca del divieto per l’imputato sottoposto alla misura degli arresti domiciliari di comunicare con terze persone, imposto ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen.».

Il ricorrente si duole di tale applicazione analogica e, per questa parte, il ricorso è fondato nei termini che saranno di seguito specificati.

…Ricognizione del quadro normativo

Ai sensi dell’art. 37 d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, i colloqui degli imputati sono autorizzati dal direttore dell’istituto. Nel corso delle indagini, e fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, sono autorizzati dall’autorità giudiziaria che procede. Ai sensi dell’art. 18, legge 26 luglio 1975 n. 354, «fino alla pronuncia della sentenza di primo grado, i permessi di colloquio, le autorizzazioni alla corrispondenza telefonica e agli altri tipi di comunicazione sono di competenza dell’autorità giudiziaria che procede, individuata ai sensi dell’articolo 11, comma 4».

Dopo le modifiche introdotte dal d.lgs. 2 ottobre 2018, n. 123, questa norma individua l’autorità giudiziaria che procede nei seguenti termini: «Se il giudice è in composizione collegiale, il provvedimento è adottato dal presidente. Prima dell’esercizio dell’azione penale provvede il giudice per le indagini preliminari; provvede il pubblico ministero in caso di giudizio direttissimo e fino alla presentazione dell’imputato in udienza per la contestuale convalida dell’arresto in flagranza. Se è proposto ricorso per cassazione, provvede il giudice che ha emesso il provvedimento impugnato».

…Indirizzi giurisprudenziali pertinenti

Secondo la giurisprudenza di legittimità, la competenza a decidere appartiene, nel corso delle indagini, al GIP in forza di una competenza funzionale e inderogabile, la cui violazione è rilevabile anche d’ufficio (Sez. 1, n. 37834 del 07/05/2015, Rv. 265010; Sez. 1, n. 38048 del 06/07/2017, Rv. 270976).

Il giudice che decide su una richiesta di autorizzazione a colloquio, inoltre, è tenuto ad acquisire il parere del PM: è stata ritenuta affetta da nullità assoluta, ai sensi dell’art. 178, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., «per l’inosservanza delle disposizioni concernenti la partecipazione del PM al procedimento, l’ordinanza del GIP che, durante la fase delle indagini preliminari, decide sull’istanza di autorizzazione allo svolgimento di colloquio avanzata dall’indagato sottoposto alla misura cautelare in carcere senza acquisire il parere del PM» (Sez. 3, n. 9987 del 19/12/2019, dep. 2020, Rv. 278533).

…Natura giuridica dei permessi di colloquio e relativo regime di impugnabilità

Per quanto riguarda la natura giuridica dei permessi di colloquio e il conseguente regime di impugnabilità, si contrappongono due indirizzi giurisprudenziali.

…hanno natura amministrativa e sono impugnabili con gli strumenti dell’ordinamento amministrativo

Secondo un primo orientamento, questi provvedimenti non hanno natura giurisdizionale ma amministrativa, perché non incidono sulla libertà personale, ma attengono alle modalità esecutive della custodia e al trattamento del detenuto; pertanto, per il principio di tassatività delle impugnazioni, non sono impugnabili con i mezzi previsti dal sistema processuale penale, ma con quelli dell’ordinamento amministrativo (Sez. 4, n. 2222 del 07/04/2000, Rv. 216486; Sez. 1, n. 24107 del 26/05/2009, Rv. 244651).

…hanno natura giurisdizionale e sono ricorribili per cassazione

A questa impostazione se ne contrappone un’altra, che si è progressivamente consolidata, secondo la quale «i provvedimenti che decidono sulle istanze di colloquio dei detenuti, potendosi risolvere in un inasprimento del grado di afflittività delle misure cautelari, sono ricorribili in Cassazione, ex art. 111 Cost., comma 7» (Sez. 6, n. 3729 del 24/11/2015, dep. 2016, Rv. 265927; Sez. 2, n. 23760 del 06/05/2015, Rv. 264388; Sez. 5, n. 8798 del 04/07/2013, dep. 2014, Rv. 258823).

…Condivisione della natura giurisdizionale

Il collegio condivide questo secondo orientamento.

Come è stato opportunamente sottolineato, infatti, risponde ad un principio di civiltà giuridica che «a colui che subisce una restrizione carceraria – preventiva o definitiva – sia comunque riconosciuta la titolarità di situazioni soggettive attive e sia garantita quella parte di diritti della personalità che neppure la pena detentiva può intaccare».

Tra questi è certamente annoverabile il diritto al mantenimento di relazioni familiari e sociali, che può essere compresso «solo ove ricorrano specifiche e motivate esigenze di sicurezza pubblica o intramuraria o, per i detenuti in attesa di giudizio, d’ordine processuale» (Sez. 5, n. 8798 del 04/07/2013, dep. 2014, Rv. 258823 pagg. 4 e 5 della motivazione).

In sintesi, il diniego di un permesso di colloquio incide sul livello di afflittività della privazione della libertà personale e «richiede il rispetto delle garanzie espressamente previste dall’art. 13 Cost., comma 2», ma «un rispetto non meramente formale di dette garanzie richiede […] che sia riconosciuta la giustiziabilità, quantomeno ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, di quei provvedimenti che, non esprimendosi mediante “atto motivato” e non essendo in altro modo censurabili, hanno rispetto ad esse portata sostanzialmente elusiva. In analogia a quanto osservato da Sez. U, sent. n. 24 del 03/12/1996, ric. Lombardi, anche con riguardo ai provvedimenti del giudice della cognizione che inibiscono al detenuto di tenere colloqui e che, in quanto non strettamente delimitati nel tempo né direttamente finalizzati ad una contingente attività da compiere, possono risolversi in un generalizzato inasprimento del grado di afflittività della misura cautelare, deve dunque trovare applicazione il principio che provvedimenti di tal fatta vanno ricompresi nella categoria di quelli sulla libertà personale, avverso cui è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge» (Sez. 5, n. 8798/2013, cit. pag. 5 della motivazione).

…I provvedimenti in materia di colloqui hanno natura giurisdizionale e sono ricorribili per cassazione ma non appellabili ai sensi dell’art. 310, cod. proc. pen.

Per quanto esposto, ai provvedimenti con i quali il giudice che procede autorizza i colloqui con una persona sottoposta a custodia cautelare in carcere o nega tale autorizzazione deve essere riconosciuta natura giurisdizionale.

Ciò comporta che tali provvedimenti siano ricorribili in Cassazione per violazione di legge ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., ma non comporta necessariamente che quei provvedimenti siano appellabili ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen.

Questa norma, infatti, fa espresso riferimento soltanto alle «ordinanze in materia di misure cautelari personali» e per ritenerla operante nel caso di specie il Tribunale ha applicato analogicamente l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale sono appellabili ex art. 310 cod. proc. pen. le ordinanze che vietano all’indagato sottoposto agli arresti domiciliari di comunicare con persone diverse da quelle che gli prestano assistenza o convivono con lui.  Come noto, con la sentenza n. 24 del 03/12/1996 (dep. 1997, Rv. 206465) le Sezioni unite di questa Corte hanno affermato che «i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 284, terzo comma, cod. proc. pen., che regolano le modalità di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla facoltà dell’indagato di allontanarsi dal luogo di custodia, contribuiscono ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittività della misura cautelare e devono pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla libertà personale; ne consegue che ad essi si applicano le regole sull’impugnazione dettate dall’art. 310 cod. proc. pen., che prevede, in proposito, un sindacato di secondo grado esteso anche nel merito (nell’affermare detto principio la Corte ha altresì precisato che la predetta disciplina non trova tuttavia applicazione con riferimento a quei provvedimenti i quali, per il loro carattere temporaneo e meramente contingente, non sono idonei a determinare apprezzabili e durature modificazioni dello “status libertatis”)».

 Il principio affermato dalle Sezioni unite è stato ritenuto applicabile anche ai provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen. Si è sottolineato a tal fine che non si tratta di una «mera modalità accessoria» degli arresti domiciliari, ma di una prescrizione «che incide gravemente sulla afflittività della misura cautelare principale» (Sez. 6, n. 21296 del 12/05/2009, Rv. 243678).

Sotto il profilo logico, l’affermazione secondo la quale i provvedimenti emessi ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen. incidono gravemente sulla afflittività degli arresti domiciliari e sono pertanto appellabili ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. muove dalla constatazione che gli arresti domiciliari comportano restrizioni alla possibilità di comunicare con persone diverse da quelle che coabitano con l’indagato o lo assistono solo se il giudice dispone in tal senso perché ritiene tale limitazione necessaria a fini cautelari.

Per gli stessi motivi, un condivisibile orientamento giurisprudenziale ha ritenuto che i limiti e divieti disposti dal giudice ai sensi dell’art. 284, comma 2, cod. proc. pen., pur accedendo alla misura coercitiva, costituiscano autonome prescrizioni dotate «di specifica ed aggiuntiva efficacia afflittiva» e, pertanto, il giudice che ritenga di adottarle o modificarle sia «tenuto ad una espressa e motivata statuizione» (Sez. 4, n. 20380 del 07/03/2017, Rv. 270026; Sez. 1, n. 6934 del 08/09/2020, dep. 2021, Rv. 280530).

Muovendo dalle medesime premesse si è ritenuto che sia «affetto da nullità assoluta a norma degli artt. 178, lett. b), e 179 cod. proc. pen. il provvedimento del giudice che, disponendo l’applicazione della misura degli arresti domiciliari, impone limiti o divieti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono, in difetto di una previa corrispondente richiesta del pubblico ministero» (Sez. 6, n. 17950 del 04/04/2013, Rv. 255136; Sez. 2, n. 53671 del 27/11/2014, Rv. 261617; Sez. 3, n. 51573 del 06/12/2023, Rv. 285629).

Se si esamina la questione oggetto del presente ricorso muovendo dalle premesse sopra indicate, la differenza ontologica tra i provvedimenti adottati ai sensi del citato art. 284, comma 2, e i provvedimenti con i quali a un detenuto viene negato o concesso un permesso di colloquio appare evidente: la persona sottoposta agli arresti domiciliari può incontrare limiti nella propria capacità di comunicare con terzi solo se quei limiti sono espressamente imposti dal giudice; chi è sottoposto alla custodia cautelare in carcere, invece, non può comunicare con le persone che si trovano all’esterno del carcere se non è espressamente autorizzato a farlo. In altri termini: le prescrizioni di cui all’art. 284, comma 2, cod. proc. pen. introducono, con provvedimento giurisdizionale, un limite alla libertà personale che si aggiunge al divieto di allontanarsi dall’abitazione e riguarda la libertà di comunicazione; i permessi di colloquio, invece, se concessi, rimuovono un limite che esiste perché discende dall’applicazione della misura cautelare detentiva.

…Conclusioni

Alla luce delle considerazioni svolte si deve concludere che i provvedimenti adottati ai sensi dell’art. 284, commi 2 e 3, cod. proc. pen. sono «ordinanze in materia di misure cautelari», ma non possono essere considerati tali i provvedimenti che concedono o negano un permesso di colloquio.

Questi provvedimenti, infatti, non introducono divieti di comunicazione, ma decidono se tali divieti, conseguenti all’applicazione della custodia in carcere, possano in concreto essere rimossi.

Si tratta di provvedimenti idonei ad incidere sulla afflittività della custodia in carcere (e, per questo, ricorribili in Cassazione per violazione di legge ai sensi dell’art. 111, comma Cost), ma non di ordinanze che applicano misure cautelari introducendo limitazioni alla libertà personale.

Non si tratta, dunque, di provvedimenti appellabili ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen. In sintesi, e conclusivamente: il legislatore ha espressamente previsto l’appellabilità delle ordinanze in materia di misure cautelari personali e reali, ma non ha previsto la possibilità di appellare i provvedimenti in materia di permessi di colloquio.

Ed infatti, per ritenere applicabile a questi provvedimenti l’art. 310 cod. proc. pen., l’ordinanza impugnata ha dovuto compiere una interpretazione analogica, inammissibile in questa materia alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione fissato dall’art. 568 cod. proc. pen.

…Esito

Per quanto esposto, l’appello ex art. 310 cod. proc. pen. avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile.

L’unico mezzo di impugnazione consentito contro il provvedimento col quale il giudice procedente aveva negato il permesso di colloquio, infatti, sarebbe stato il ricorso per cassazione per violazione di legge.

Ne consegue l’annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata ai sensi dell’art. 620, lett. d), cod. proc. pen.