Questo scritto è stato stimolato dalla lettura di un brillante lavoro di F. R. Dinacci, Elefantiasi delle decisioni, metodo probatorio e motivazione razionale: quando lo storico prevale sul giudice, pubblicato in Archivio Penale, 2024, 1, (liberamente accessibile a questo link), a sua volta occasionato dalla pubblicazione della motivazione di Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 45506/2023, udienza del 27 aprile 2023, deposito del 10 novembre 2023, che ha deciso i ricorso degli imputati del processo per la cosiddetta trattativa Stato-mafia avverso la sentenza della Corte di assise d’appello di Palermo del 23 settembre 2021.
Si riconosce quindi preliminarmente, come è giusto, questo debito di gratitudine, peraltro ampliato dalla ricchezza e dalla significatività dei riferimenti bibliografici e giurisprudenziali che corredano lo scritto di Dinacci.
Fedeltà al processo del testo della decisione: i principi elaborati da Sezioni unite, sentenza n. 45276/2003
Il 24 novembre 2003 le Sezioni unite penali della Suprema Corte emisero la sentenza n. 45276/2003 la quale costituì l’atto conclusivo della complessa vicenda giudiziaria che ebbe ad oggetto l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, direttore della rivista OP (Osservatore politico), avvenuto a Roma il 20 marzo 1979.
Secondo l’ipotesi accusatoria, “l’omicidio sarebbe stato ideato e deciso, per la tutela della sua posizione politica messa in pericolo dall’attività giornalistica di Pecorelli, da Giulio Andreotti (Presidente del Consiglio dei Ministri) il quale, attraverso Claudio Vitalone (PM presso la Procura della Repubblica di Roma), avrebbe chiesto ai cugini Ignazio e Nino Salvo (uomini d’onore di “Cosa nostra”, della famiglia di Salemi, in rapporti privilegiati con Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti) l’eliminazione del giornalista. I Salvo si sarebbero rivolti a Stefano Bontade (capo mandamento della famiglia di S. Maria del Gesù o della Guadagna e membro della “commissione provinciale” fino alla sua uccisione nel 1981, che disponeva a Roma di una “decina” guidata da Angelo Cosentino, in contatto con la delinquenza comune e con Giuseppe Calò durante la sua latitanza romana) ed a Gaetano Badalamenti (capo mandamento della famiglia di Cinisi e membro della “commissione provinciale” fino alla sua espulsione da “Cosa nostra” nel 1978). Questi, a loro volta, tramite Salvatore Inzerillo (capo mandamento della famiglia di Passo di Rigano o Boccadifalco e membro della “commissione provinciale” fino alla sua uccisione nel 1981) e Giuseppe Calò (capo mandamento della famiglia di Porta Nuova, di cui faceva parte anche Tommaso Buscetta, e membro della “commissione provinciale”), che aveva conoscenze nell’ambiente della banda della Magliana e frequentava Danilo Abbruciati e Franco Giuseppucci, avrebbero incaricato costoro di organizzare l’esecuzione materiale del delitto. L’omicidio sarebbe stato infine eseguito da Massimo Carminati, personaggio legato alla destra eversiva romana e all’ambiente della banda della Magliana, e da Angelo La Barbera (uomo d’onore della famiglia mafiosa facente capo ad Inzerillo e sottocapo di Salvatore Buscemi, succeduto all’Inzerillo dopo la sua morte nel 1981)“.
Per ciò che qui interessa, la Corte di assise di Perugia assolse Giulio Andreotti dall’imputazione di concorso nell’omicidio per non avere commesso il fatto.
L’esito assolutorio fu sconfessato dalla Corte di assise di appello di Perugia che ritenne Andreotti responsabile del delitto contestatogli e lo condannò alla pena di 24 anni di reclusione.
Seguì il ricorso per cassazione dell’interessato, accolto dalle Sezioni unite che annullarono senza rinvio la sentenza di secondo grado, rendendo in tal modo definitiva la sua assoluzione.
Così sinteticamente riassunta la vicenda processuale, in questa sede rilevano le argomentazioni spese dal collegio nomofilattico per delimitare l’ambito del controllo consentito al giudice di legittimità ove siano stati dedotti vizi attinenti alla formazione della prova e ad alla sua valutazione (o omessa valutazione) e, di seguito, per evidenziare il disallineamento della sentenza impugnata rispetto alle regole che governano il potere decisorio giudiziario.
La sentenza in esame è da questo punto di vista una miniera preziosa.
Ecco i passaggi decisivi:
“ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione [può e deve] fare riferimento, come tertium comparationis per lo scrutinio di fedeltà al processo del testo del provvedimento impugnato, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche (non certo ai motivi d’appello dell’imputato, carente d’interesse all’impugnazione, perciò inesistenti) alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del PM, abbia prospettato al giudice d’appello l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed utilizzate per fondare la decisione assolutoria. La mancata risposta dei giudici d’appello alle prospettazioni della difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficerebbe la completezza e la coerenza logica della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la renderebbe suscettibile di annullamento. La Corte di cassazione, dunque, senza necessità di accedere agli atti d’istruzione probatoria, prendendo in esame ancora una volta il testo della sentenza impugnata e confrontandola con quella di primo grado e con gli apporti difensivi nel giudizio d’appello, è chiamata a saggiarne la tenuta, sia “informativa” che “logico-argomentativa“. S’intende ribadire che compito del giudice di legittimità non è, e non può essere, quello di accedere agli atti – come vorrebbe il ricorrente per apprezzare il significato, che si asserisce decisivo, di una prova acquisita – ma quello di verificare se una prova, in tesi decisiva, richiesta (se ci si duole della mancata assunzione) o assunta (se ci si duole della mancata valutazione) sia effettivamente tale, e se quindi l’omissione denunciata sia idonea a inficiare la decisione di merito”;
“Le censure difensive, attinenti sia alla violazione della regola di valutazione probatoria di cui all’art. 192.3 c.p.p. che alla manifesta illogicità della motivazione, quanto all’affermato concorso morale dell’imputato nella veste di mandante dell’omicidio, si articolano sul duplice versante dell’inattendibilità intrinseca e dell’inesistenza di obiettivi e individualizzanti riscontri esterni della chiamata in reità de relato del collaboratore di giustizia Tommaso Buscetta, fonte di prova privilegiata e cardine dell’accusa“;
“la Corte di assise d’appello ha apoditticamente qualificato come “indizio”, secondo la tradizionale ed ormai ripudiata teoria del “cui prodest”, la generica ed equivoca individuazione di un’area di “interesse” all’eliminazione del giornalista, facente capo ad Andreotti. Situazione, questa, che, ai fini dell’affermazione di responsabilità dell’imputato quale mandante dell’omicidio, potrebbe al più definirsi una mera ragione di sospetto, una supposizione o un argomento congetturale, tenuto conto altresì dell’incerta prova circa l’esclusività o la molteplicità dei moventi e dell’impossibilità di risalire al mandante attraverso l’identificazione delle persone degli esecutori materiali e dei legami di costoro con il mandante o con gli intermediari dello stesso“;
“Che manchi del tutto la prova del mandato omicidiario, riguardo all’individuazione della concreta condotta concorsuale di Andreotti, è altresì fatto palese dalla consapevole e conclamata resa dei giudici d’appello di fronte alla molteplicità delle ipotesi fattuali astrattamente configurabili: dal conferimento “esplicito” del mandato omicidiario a quello per acta concludentia, dalla “approvazione successiva” al “consenso tacito“.
E dunque:
- il testo delle decisioni giudiziarie deve essere fedele al processo;
- spetta al giudice di legittimità verificare se tale obbligo sia stato rispettato;
- gli spetta ancora di verificare se ciò che il giudice di merito qualifica come prova sia davvero tale.
I corollari della fedeltà al processo: Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 45506/2023
A distanza di vent’anni dalla sentenza citata nel paragrafo precedente, è arrivata all’attenzione della Suprema Corte una vicenda giudiziaria, la cosiddetta trattativa Stato-mafia, il cui impatto sociale e mediatico non è stato certo inferiore a quello prodotto a suo tempo dall’omicidio di Mino Pecorelli.
Anche questa seconda decisione, in un ideale fil rouge con le Sezioni unite del 2003, ha molto a che fare con la fedeltà al processo.
Nell’impossibilità di soffermarsi su ognuno dei passaggi di spicco, si concentra l’attenzione su alcuni soltanto di essi, prescelti per la loro immediata connessione al discorso che si va facendo.
…Il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio (regola BARD)
Come sa chiunque si confronti per studio o lavoro con gli indirizzi di legittimità, la regola BARD, pur nata per consolidare e definire in modo più netto il principio ordinamentale del favor rei, nell’applicazione concreta è stata spesso degradata ad una mera formula descrittiva che nulla aggiungeva di nuovo ai canoni valutativi già ampiamente e convintamente applicati nella giurisdizione nazionale (per un approfondimento si rinvia al nostro “Il ragionevole dubbio nella giurisprudenza di legittimità“, consultabile a questo link).
I giudici del collegio della sesta sezione penale si sono lasciati alle spalle la svogliata banalizzazione di tanti loro predecessori ed hanno restituito alla regola la centralità che le è stata spesso negata.
Non solo: hanno avuto cura di ricordare, conformemente a un ben preciso ma troppo spesso dimenticato passaggio esplicativo contenuto in Sezioni unite, Troise, n. 14800/2018, che tale regola “esplica i suoi effetti conformativi non solo sull’applicazione delle regole di giudizio, ma anche, e più in generale, sui metodi di accertamento del fatto, imponendo protocolli logici del tutto diversi in tema di valutazione delle prove e delle contrapposte ipotesi ricostruttive in ordine alla fondatezza del tema d’accusa: la certezza della colpevolezza per la pronuncia di condanna; il dubbio originato dalla mera plausibilità processuale di una ricostruzione alternativa del fatto per l’assoluzione […] Nella sua complessiva valenza, dunque, il canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio impone un modello di organizzazione sul fatto che non ammette nella motivazione la sussistenza di dubbi interni (ovvero la autocontraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero l’esistenza di un’ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica)“.
Lapidaria l’affermazione conclusiva sul punto: “Ciò posto, entrambi i profili della c.d. regola bard sono stati violati nella sentenza impugnata“.
Seguono (pagg. 65 e ss.) le ragioni che hanno imposto un giudizio così severo: non è questa la sede che possa consentire una loro analisi dettagliata sicché ci si limita a dire che le si ritiene massimamente condivisibili.
…L’approccio storiografico
Così si legge nell’avvio del paragrafo 6.8 (pagg. 71/72):
“Fermo restando il riconoscimento per l’impegno profuso nell’attività istruttoria dai giudici di merito, deve, tuttavia, rilevarsi che la sentenza impugnata, e ancor più marcatamente quella di primo grado, hanno invero, optato per un modello di ricostruzione del fatto penalmente rilevante condotto secondo un approccio metodologico di stampo storiografico. Tuttavia, anche quando oggetto del processo penale siano accadimenti di rilievo storico o politico, e, dunque, connotati da una genesi complessa e multifattoriale, l’accertamento del giudice non muta la sua natura, la sua funzione e il suo statuto garantistico, indefettibile sul piano costituzionale […]
Le sentenze di merito, conferendo di fatto preminenza ad un approccio storiografico nell’interpretazione del dato probatorio, hanno, inoltre, finito per smarrire la centralità dell’imputazione nella trama del processo penale, profondendo sforzi imponenti nell’accertare fatti spesso poco o per nulla rilevanti nell’economia del giudizio.
La trama di entrambe le sentenze di merito, infatti, pur muovendo dal corretto rilievo che la c.d. «trattativa Stato-Mafia» non costituisce di per sé reato, in quanto condotta non punita dalla legislazione penale, è, tuttavia, monopolizzata dal tema dei contati intercorsi, successivamente alla strage di Capaci, tra esponenti del R.O.S. e quelli della associazione mafiosa denominata “cosa nostra” e dall’accertamento degli stessi negli anni successivi, riservando un rilievo proporzionalmente minimale alle condotte contestate di minaccia al Governo“.
È un rilievo fortemente critico, traducendosi in un addebito di smarrimento del ruolo e dei limiti funzionali del giudice di merito e di inconcludente o minima significatività dell’istruttoria condotta.
Eppure, coglie in modo esemplare la voglia bulimica di tutto sapere e tutto spiegare alla quale non hanno saputo resistere entrambi i giudici di merito.
Basterà qui riportare il periodo iniziale della motivazione propriamente detta della sentenza della Corte d’assise di Palermo (pagg. 65 e ss.):
«senza alcuna enfasi, può con assoluta serenità affermarsi che l’istruttoria dibattimentale svolta nel processo di cui la presente sentenza costituisce epilogo ha ricostruito la storia recente dell’organizzazione “cosa nostra” […]. Il processo ha assegnato a questa Corte un incarico arduo e pressoché titanico, perché i fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni Sessanta e i giorni nostri».
…Il vizio di elefantiasi
Il passaggio della motivazione cui è dedicato questo paragrafo è immediatamente successivo a quello di cui si è appena detto e, come si vedrà, non è affatto un caso.
Potrebbe sembrare eccentrico, e comunque futile, evidenziare questo dato.
Sarebbe tuttavia un’impressione sbagliata posto che il collegio di legittimità ha da un lato menzionato esplicitamente il dato dimensionale delle due sentenze di merito, attribuendogli addirittura una valenza negativa nei termini che si vedranno, e dall’altro ha opposto, questa volta implicitamente ma non meno significativamente, una motivazione contenuta in 95 pagine, 51 delle quali sono bastate a giustificare in modo chiarissimo le ragioni della decisione.
Così si legge al riguardo (pag. 72/73):
“Tale marcata discrasia tra imputazione e oggetto principale dell’accertamento processuale ha, inoltre, determinato un’eccessiva dilatazione delle motivazioni delle sentenze, che hanno assunto, sia in primo, che in secondo grado, una mole imponente (5237 in primo e 2971 in secondo grado), tale da offuscare le ragioni della decisione e rendere le linee argomentative di difficile identificazione e interpretazione.
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno, del resto, fortemente stigmatizzato le motivazioni delle sentenze caratterizzate da «elefantiasi» o «macroscopicamente sovrabbondanti», rilevando che «tale stile ostacola la comprensione del senso della decisione, tradisce la funzione euristica della motivazione, disattende precise indicazioni di plurime norme processuali» (Sez. U, n. 40516 del 23/6/2016, Del Vecchio, in motivazione).
Secondo le Sezioni Unite, il «virtuoso paradigma della chiarezza e concisione» impone, infatti, di discutere «ove occorra anche diffusamente, solo i fatti rilevanti e le questioni problematiche, liberando la motivazione dalla congerie di dettagli insignificanti che spesso vi compaiono senza alcuna necessità».
L’estensore descrive in tal modo una sequenza rovinosa di errori: l’accertamento processuale è stato indebitamente dilatato ben al di là dei limiti posti dal manifesto accusatorio; si è di conseguenza raccolta una mole esorbitante di dati per lo più irrilevanti rispetto alle contestazioni in campo; la motivazione di entrambe le sentenze di merito è stata inquinata dalla massa di “rumore” acquisita senza che ne fosse necessità; il risultato finale è un discorso giustificativo affetto da elefantiasi e quindi privo della chiarezza e della concisione in assenza delle quali la motivazione diventa inservibile al suo scopo.
L’estensore non ne ha fatto cenno, non avendone bisogno e non essendo suo compito, ma è comunque opportuno sottolineare un’ulteriore e altrettanto dannosa conseguenza di questi gravi scostamenti dalla fisiologia procedimentale: il decreto di rinvio a giudizio che ha dato il via al processo di cui si parla fu emesso il 7 marzo 2013; ci sono voluti dunque più di dieci anni per arrivare ad una sentenza definitiva e varie ipotesi di reato sono andate incontro alla prescrizione; la bulimia giudiziaria porta anche a questo.
Ulteriori esempi di infedeltà al processo
La fenomenologia concreta dell’odierno processo penale (e delle indagini che lo precedono) offre plurimi esempi di infedeltà.
Si è propensi a considerare tali:
- le indagini esplicitamente finalizzate a dare risposte alle comunità e alle vittime ed a lasciare ai posteri modelli predittivi ed organizzativi a fronte di emergenze in grado di mettere a rischio o ledere l’incolumità pubblica: si pensi all’inchiesta condotta da una Procura settentrionale sulla gestione della pandemia da Covid-19 nel territorio di sua competenza che pretendeva di sindacare atti e attività di chiara spettanza politica e che si avvalse della collaborazione di un noto esperto il quale arrivò a stimare fino all’unità le migliaia di vittime che si sarebbero potute salvare se solo le autorità pubbliche avessero fatto quello che egli riteneva dovesse essere fatto;
- le imputazioni consistenti in una mera elencazione di elementi conoscitivi che, di fatto, delegano al giudicante l’identificazione del fatto reato;
- l’uso (e l’abuso) di formule che dovrebbero riassumere il senso comune e la regola che ne deriva, con la pretesa strabiliante che, enunciata la regola, non sia poi necessario verificare se sia stata violata;
- il ricorso, allorché si affronti il tema del nesso causale tra condotta ed evento, a formule descrittive del secondo che sono nient’altro che estrapolazioni concettuali e metaforiche impossibili da afferrare e connettere a fenomeni reali e misurabili: si pensi, in tema di concorso esterno in associazione mafiosa, all’evento che, nei termini configurati dall’attuale giurisprudenza di legittimità, consisterebbe nella conservazione e/o nel rafforzamento dell’associazione stessa; chi, munito di onestà intellettuale, può dirsi in grado di identificare con certezza eventi del genere?
Altri, e numerosi, esempi si potrebbero fare ma non aggiungerebbero nulla al quadro già composto.
Il processo, per dirla con le parole di Satta, resta un mistero e di questo mistero molti approfittano per proporne e attuarne versioni disarmanti.
