Principio di specialità unico criterio applicabile in tema di concorso apparente di norme: risultati del suo impiego nel raffronto tra estorsione e violenza o minaccia per costringere a commettere un reato (Vincenzo Giglio e Riccardo Radi)

Cassazione penale, Sez. 6^, sentenza n. 5634/2024, udienza del 21 novembre 2023, ha affermato che tra la fattispecie di cui all’art. 611 cod. pen. e quella di cui all’art. 629 cod. pen. non vi è alcun rapporto di specialità, riconducibile alla nozione accolta nell’art. 15 dello stesso codice.

La giurisprudenza delle Sezioni unite penali è consolidata nel rilevare che l’unico criterio idoneo a dirimere i casi di concorso apparente di norme è da rinvenirsi nel principio di specialità ex art. 15 cod. pen. (Sez. U, n. 20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv. 269668 – 01; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 – 01; Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, Rv. 248865 – 01; Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, Rv. 235962 – 01; Sez. U, n. 47164 del 20/12/2005, Marino, Rv. 232302 – 01).

Il principio di specialità consente alla legge speciale di derogare a quella generale, nel caso in cui le diverse disposizioni penali regolino la “stessa materia”. Sul punto, si è precisato che deve definirsi norma speciale quella che contiene tutti gli elementi costitutivi della norma generale e che presenta uno o più requisiti propri e caratteristici, in funzione specializzante, sicché l’ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell’ambito operativo della norma generale (Sez. U, n. 1235 del 28/10/2010, dep. 2011, Giordano, cit.).

In tale ambito ricostruttivo, si è chiarito che il criterio di specialità deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale. Il presupposto della convergenza di norme, necessario perché risulti applicabile la regola sull’individuazione della disposizione prevalente posta dall’art. 15 cod. pen, risulta integrato solo in presenza di un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato. L’insegnamento delle Sezioni Unite è consolidato nel ritenere che per “stessa materia” deve intendersi la stessa fattispecie astratta, lo stesso fatto tipico nel quale si realizza l’ipotesi di reato; con la precisazione che il riferimento all’interesse tutelato dalle norme incriminatrici non ha immediata rilevanza ai fini dell’applicazione del principio di specialità (Sez. U, n. 16568 del 19/04/2007, Carchivi, cit.; Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, cit.).

In applicazione dei richiamati principi, la Corte regolatrice, nella sua massima espressione, ha rilevato che l’identità di materia si ha sempre nel caso di specialità unilaterale per specificazione, perché l’ipotesi speciale è ricompresa in quella generale, e, parimenti, nel caso di specialità reciproca per specificazione, come nel rapporto tra gli artt. 581 (percosse) e 572 (maltrattamenti in famiglia) cod. pen., ovvero di specialità unilaterale per aggiunta, per es. tra le fattispecie di cui agli artt. 605 (sequestro di persona) e 630 (sequestro di persona a scopo di estorsione) cod. pen.

L’identità di materia è, invece, da escludere nella specialità reciproca bilaterale per aggiunta, ove ciascuna delle fattispecie presenta, rispetto all’altra, un elemento aggiuntivo eterogeneo, come nel rapporto tra violenza sessuale e incesto: violenza e minaccia nel primo caso, rapporto di parentela o affinità nel secondo (Sez. U, n. 1963 del 28/10/2010, dep. 2011, Di Lorenzo, Rv. 248722 – 01).

Le Sezioni unite, quindi, considerato che il criterio di specialità è l’unico principio legalmente previsto in tema di concorso apparente, nelle anzidette pronunce hanno escluso la possibilità di ricorrere alle figure dell’assorbimento, della consunzione e dell’ante-fatto o post-fatto non punibile, ritenute prive di sicure basi ricostruttive, poiché individuano elementi incerti quale dato di discrimine, come l’identità del bene giuridico, tutelato dalle norme in comparazione, e la sua astratta graduazione in termini di maggiore o minore intensità, di non univoca individuazione, e per questo suscettibili di opposte valutazioni da parte degli interpreti.

Tale conclusione – si è precisato – resta valida pur a seguito di quanto specificamente elaborato dalla Corte EDU con la sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia e con successive pronunce sul tema della medesima autorità (Corte EDU, Grande Camera, 15/11/2016, A e B contro Norvegia), fino a giungere alla sentenza della Corte cost. n. 200 del 2016. Dall’attenta lettura dei provvedimenti richiamati, infatti, si ricava la presenza di un costante riferimento alla necessità di una comparazione concreta e complessiva delle fattispecie con particolare distinzione – quanto alla verifica del presupposto processuale di cui all’art. 649 cod. proc. pen. e del suo corrispondente convenzionale dell’art. 4 Prot. 7 CEDU – al fatto oggetto di contestazione e, quanto all’individuazione dell’unitarietà della fattispecie contestata, agli elementi costitutivi della stessa, caratterizzati come sempre dalla correlazione azione – evento – elemento psicologico e dalla loro concreta attribuzione, attraverso il capo di imputazione, alla persona sottoposta a giudizio. In particolare, le pronunce della Corte EDU succedutesi in argomento, cui si è già fatto riferimento, fondano la necessità di una comparazione di quanto contestato con l’oggetto di un precedente giudizio; sottolineano la funzione processuale di tale limite e non escludono che la regolamentazione sostanziale del fatto possa essere descritta in più di una disposizione incriminatrice (penale o amministrativa), stante la più ampia libertà decisionale riconosciuta allo Stato nazionale in argomento.

Alla luce di siffatte coordinate ermeneutiche deve affermarsi che tra la fattispecie di cui all’art. 611 cod. pen. e quella di cui all’art. 629 cod. pen. non vi è alcun rapporto di specialità, riconducibile alla nozione accolta nell’art. 15 dello stesso codice, atteso che la condotta presa in considerazione dall’art. 611 cod. pen. è quella diretta a costringere altri a commettere un reato, mentre la condotta incriminata dall’art. 629 cod. pen. è quella diretta a conseguire un ingiusto profitto con altrui danno patrimoniale, sicché si riscontra in ciascuna delle due ipotesi criminose una diversità di condotte finalistiche e una diversità di attività materiali che non lasciano sussistere tra esse quella relazione di omogeneità che rende applicabile la disposizione dell’art. 15 cod. pen.

Siffatto epilogo è stato affermato già da precedenti pronunce di questa Corte, che, pur contenendo un riferimento anche alla diversità dei beni tutelati dalle due norme in questione, hanno comunque compiuto un confronto tra gli elementi costitutivi delle fattispecie e sono addivenute ad escludere un rapporto di specialità (Sez. 2, n. 15441 del 12/11/2021, Rv. 282961 – 01; Sez. 2, n. 40837 del 9/10/2008, Rv. 242244 – 01; Sez. 2, n. 48029 del 20/10/2016, non massimata).